Visualizzazione post con etichetta esercizi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta esercizi. Mostra tutti i post

lunedì 13 aprile 2015

Che seme vuoi far germogliare?

La terra è bagnata ed affondarci le mani è un piacere atavico. L’odore che arriva alle mie narici è familiare e confortante, odore di un qualcosa che c’è da prima di noi, che rimarrà dopo, qualcosa nel quale finiremo tutti. 
Oppure no, oppure sceglieremo di essere cenere nel vento o ancora, qualcun altro sceglierà per noi. 

Ma la terra è una sorella, come la notte. Supporta i nostri passi incerti, ci rende stabili o ci fa tentennare, diventa sasso per farci inciampare, giaciglio per dormire.
Ed è pronta ad accogliere, pronta a cullare i nostri semi, a ricoprirli nello stesso modo in cui si mette una coperta sul corpo di una persona che si ama e che si è addormentata stremata sul divano.
Ricopre, protegge, dà il tempo, cura, questo fa la terra.

Ed io prendo i semi che ho trovato un giorno, per un caso che non è un caso e che da allora custodisco in una scatolina, li tengo tra le dita, faccio attenzione a non farmeli cadere dalle mani, non è il momento di essere maldestra.
Loro sono ciò che non vorrei mai perdere ed io vorrei lanciarli in aria e vedere dove cadono, dove rotolano, dove li porterebbe il vento se lo lasciassi fare, questo vorrei ma una parte di me, quella che ancora conosce la parola razionalità, sa che li infilerà uno per uno in punti diversi del terreno, assicurandosi che siano ben coperti, pronti ad attecchire al suolo.
Consapevole anche che forse non ce n’è bisogno, che se deve attecchire, attecchisce, se deve germogliare, germoglia.
Consapevole che alcune cose accadono da sole, a volte basta una pioggia improvvisa.

Prendo i tre semi, li guardo con negli occhi tutta la paura che ho di salutarli ma sento che è il momento. Confido nel sole e nella pioggia, confido nelle mie mani.
Li infilo con cura, a venti centimetri uno dall’altro. Chiudo gli occhi e penso a come sarà quando li rivedrò nella loro nuova forma, penso al lavoro che ci vorrà per innaffiarli, potarli, curarli, penso alle mani sporche e talvolta doloranti.


Penso a quando il mio giardino sarà al massimo del suo splendore e a quando Fantasia, Estro e Creatività brilleranno davanti al mio sguardo innamorato.

domenica 22 marzo 2015

Lamiavitain20minuti.

Erano due ragazzini che facevano l’amore in macchina, i miei genitori.
Lui operaio, lei commessa in un negozio di libri: 22 e 21 anni.
Sei bassetta perché t’abbiamo fatta nella 500” si diverte a ripetere ancora oggi mio padre in una delle sue mille battute tutte uguali che  mi strappano sempre un sorriso, seppur a volte esasperato.

Ma  a pensarci bene ne ho avuta un’altra di mamma, mia nonna Adriana, bellissima e formosa romana di Garbatella, con le labbra carnose, la risposta pronta e una profonda depressione che nessuno mai capì. E che mi amò e coccolò per tutto il tempo che ebbe.
Si racconta di me che a due anni piangevo di commozione guardando Heidi, che chiaccheravo troppo e che stavo ore nella libreria dove mia madre lavorava, seduta a terra a leggere libri che se mi concentro  sento ancora l’odore di carta e del legno dei vecchi scaffali: tutto torna.

E la scuola, dove non ho mai brillato per impegno ma dove sono sempre stata involontariamente leader. E sì che a me i leader mi sono sempre stati sul cazzo.

La comitiva, la primavera, il primo bacio dato in chiesa, il rossetto messo per le scale perché mio padre “se ti becco per strada col rossetto ti lavo la faccia alla fontanella”.

E le amiche che ho fatto soffrire e quelle che hanno fatto soffrire me e poi, in un pomeriggio d’inverno ecco che arriva lui.
Introverso, timido e sbruffone col CIAO modificato e un appuntamento al quale è stato in grado di arrivare con 25 ore di ritardo, sorridendomi ed infilandosi nei miei giorni,e non solo in quelli, per i 6 anni che avevamo davanti.
Le fughe nella casa al mare, il fare l’amore per la prima volta davanti al camino tra i cuscini colorati, il prenderci gusto, il non fermarsi più.
L’essere l’uno per l’altra fondamento e al tempo stesso distruzione degli adulti che saremmo divenuti un giorno. Lui, che ancora oggi è una delle persone più folli ed amorevoli che ho nella vita, che solo adesso, dopo 15 anni, posso frequentare senza sentirmi inquieta.

Poi l’improvvisa morte di mia nonna e con lei di una parte di me ma anche l’affermarsi di una realtà: io non ricoprirò mai il ruolo che la società proverà ad affibbiarmi, io non rinuncerò a nessun battito del cuore in nome di nessuna coerenza o stabilità. Io non sarò prigioniera dei miei giorni, nonna. So che se avessi potuto, me lo avresti fatto promettere.

Poi il primo amore che finisce e il ritrovarmi a 23 anni convinta di essere ad un passo dalla morte ed invece, posso dirlo? A 23 anni non si è proprio a un passo da nulla, si è solo una lavagna bianca e c’è soltanto da pregare che qualcuno ci scriva sopra nel modo migliore.

E via, si vive.
Si esce, si balla, si fuma, ci si droga, si va in coma etilico, ci si perde, si ascolta la musica, si viaggia, si scopa, si soffre, quanto si soffre, si scrive, si studia, non ci si riesce molto bene ma si legge (tanto), si gode, ci si trattiene (poco), si pensa (non sempre), ci si innamora più volte e c’è sempre un abisso profondo da cui riemergere però santo dio, che bello è stato affondarci, treni e lacrime sui binari.
Poi si parte per la Spagna e si torna. Poi si parte per un’isola e si torna.

Poi si incontra una persona diversa dalle solite, una persona calma, realizzata e serena e ci si dice “perché no?” forse vale la pena fermarsi con lui, forse l’amore non è sofferenza ma comprensione, condivisione, serenità. Forse.

Mio padre si ammala. Ah sì? E io mi sposo. No, non c’è un legame, non cercatelo. Andrò così: al mio matrimonio tenni le scarpe mezzora e mi vestii di verde.

E poi c’è la vita a Roma che diventa una camera a gas ma c’è anche una macchina e un “sì, andiamo” e poi c’è Berlino.

Poi c’è un bambino, un maschietto che arriva e se ne riva. O prova ad arrivare, di sicuro se ne va, una breve visita che diventa la fine dei miei giorni e subito dopo la possibilità di nascere nuovamente.
Perché nonna, non me la scordo la promessa che non ho fatto in tempo a farti: nessun ruolo, nessuna categoria.
Quindi ora la mia vita è il contenuto caotico di una borsa in cui ci sono cose molto preziose e qualche cosa inutile, l’ho rovesciato sul tavolo e lo sto osservando in attesa di decidere cosa farne.

Di lei e di me.

mercoledì 18 marzo 2015

"Il mondo è un posto bizzarro." (cit.)

"Te lo chiedi mai?"

Le domanda spegnendo la sigaretta sulla banchina della metro ed aggiunge, senza darle neanche il tempo di rispondere

"A dove va tutta questa gente."

"No, dovrei?"

"No, non dico che dovresti ma potresti. Io per esempio me lo chiedo spesso e quando mi sveglio presto per andare a lavoro ed incontro gente sfatta che torna dalle serate, cerco di immaginarmi cosa hanno vissuto, dove sono stati, con chi, a fare cosa, se si sono mai seduti su un divano di pelle a vedere il fiume che scorre e poi di colpo rallenta.
E poi, cosa avranno fatto una volta arrivati a casa? Dormire non è così scontato. Oppure al contrario, quando sono io a rincasare all'alba ed incontro questa gente che diligente va a lavoro, spero non si senta l'odore di alcol che mi porto dietro.Oppure il pomeriggio, guardando i bambini che escono da scuola mi chiedo se sono felici di tornare a casa, se poi faranno merenda come facevo io da piccolo o se avrabbero preferito rimanere a scuola.E quella ragazza così assorta, forse vuole solo rientrare a casa per vedere sette episodi di fila della serie tv che al momento le tiene le notti impegnate. E quale sarà? L'avrò mai vista?E poi, chi ride guardando lo smartphone? Io vorrei conoscere chi si è meritato quella risata. E chi legge un libro? Sarà soddisfatto di averlo tra le mani o è pentito di averlo iniziato ma ha difficoltà a lasciare la lettura a metà? Non sempre i loro volti lasciano trasparire qualcosa.E gli altri, i protagonisti delle mie quotidiane fantasie, cosa penseranno di me? Mi vedranno o per loro sarò solo un movimento sullo sfondo?Eh? Ci pensi mai?"

Arriva la metro, lei fa un passo verso la banchina. 

"Non me ne frega un cazzo" risponde. 

_____


Questo è stato l'esercizio di sabato scorso del corso de Le Balene, Mattia ci ha dato un titolo come input e basta.
Poi il giorno dopo ho aperto un foglio bianco, ho riscritto lo stesso titolo ed ho scritto un'altra cosa. Che nessuno leggerà mai. 

domenica 8 marzo 2015

Restiamo così.


Richiudo la porta, se mi annusassi le mani ora sentirei l’odore di ottone e di mille palmi che hanno toccato, prima di me, questa maniglia. Invece non ho il tempo di farlo, né di pensarci perché giunge dritto nella mia testa, un profumo di incenso e della cera ormai dura delle candele che una volta sono state profumate.
Faccio un passo e il gatto scappa appena in tempo, non lo calpesto e ne sono sollevata, mi sarebbe dispiaciuto sentire il verso sorpreso e dolente che avrebbe emesso.
Poggio la mia mano sull’interruttore e mi fermo a riflettere sui germi. Avevo una zia fissata con gli interruttori, li disinfettava almeno una volta al giorno, diceva che erano la cosa che più si sporcava in casa.
Sto per premerlo, sfidando i microbi e pensando che no, non ho mai disinfettato un interruttore in vita mia, quando sento una mano calda posarsi sulla mia.

Non lo fare” mi dice “Restiamo così

Quello che mi arriva è cuoio e tabacco, intreccio, senza capire ancora quello che sta succedendo, le dita tra le sue e rivolgo il viso dove dovrebbe essere lui. 
I centimentri che ci dividono non sono molti, posso sentirlo dal calore del suo alito che mi scalda il viso.

Ma che ci fai qui? Vuoi farmi morire?!
Stamattina quando sei uscita per andare  a lavoro non ho preso il treno ed ho deciso di rimanere qui ad aspettarti.
Al buio?” gli domando divertita.

Immagino, in quel nero che ci avvolge e divide, la sua smorfia, quella che dovrebbe essere un sorriso.

Da quando il sole è tramontato ho deciso di non accendere la luce. Ho rinunciato a leggere ma ho ascoltato la musica.”
Tu non sei normale.”
Mangiamo?” mi chiede lui.

Senza aspettare la mia risposta mi prende per mano e mi precede, dovrei essere io a guidarlo  ma per questa volta va bene così.
Percorro quei metri sfiorando la parete e cercando di mantenere l’equilibrio, almeno col corpo.
Seguo il bordo della stampa di Feltrinelli, quella che Francesco incorniciò di rosso e mi regalò per un Natale di secoli fa. La mia mente sale su un treno, percorre 600 km, scende alla stazione gli va incontro, lo abbraccia col cuore spezzato, poi riprende il treno e torna qui.
Stacco la mano dalla cornice ed ecco lo stipite, siamo arrivati. Mi avvolge un odore di pane e formaggio, salame, frutta. È tutto sul tavolo, posso intuirlo.
Lo immagino mentre apparecchia la tavola e organizza per me questa strana cena oscura, non riesco a stupirmi, del resto è da lui.
Sistema la sedia e mi fa sedere.

Sembri esperto” gli dico “mangi spesso al buio?
No e spero di non infilarti un’oliva nel naso” mi risponde.
Ridiamo.

E poi ci avviciniamo un po’ come se avessimo ancora bisogno di una scusa.
Alzo la mano e trovo la mensola e sulla mensola una candela che non potrò accendere ma l’annuso, perché è alla vaniglia e la vaniglia è il mio profumo preferito.
Allunga una mano verso di me, trova la mia bocca, ne segue il contorno e ci infila dentro un pezzetto di formaggio. Sa di miele.

Arrossisco ma nessuno lo saprà mai.

domenica 18 gennaio 2015

Palpebre chiuse.

È andata così, Agata ci ha dato un esercizio in cui avremmo dovuto descrivere "la volta in cui abbiamo tradito la fiducia di qualcuno".
 Io non l'avevo fatto, poi però Daria ha scritto un post
(una donna che va via, di notte.)

ispirandosi proprio a quell'esercizio e a me è venuta voglia di scrivere questo.
Io non so se capite che tutto ciò -non il mio scritto, ma TUTTO ciò- è una figata, lo spero per voi.


Lasciare questa stanza d'albergo, nel cuore di una notte silenziosa in cui i secondi vengono scanditi solo dalla goccia del rubinetto che perde, è forse la cosa più dolorosa che le sia mai capitata nella vita.
Questo che sta abbandonando, nel mezzo di un ignaro sonno è l'uomo che le aveva affidato la propria, di vita, che le aveva aperto le mani, gliele aveva richiuse e nel mezzo aveva lasciato se stesso.
Nessuna promessa, nè progetto, solo lui e tutto il caos che conteneva.
E lei, mai come quella volta sentì forte, sulle spalle, tutto il peso dell' essere stata scelta.

Erano lui e il suo bambino, quando li vide la prima volta, erano davanti ad un distributore di benzina. Li sorvolò con gli occhi senza soffermarsi né sullo sguardo concentrato del piccolo né sugli occhi che, ci avrebbe potuto giurare, un tempo erano stati profondi, dell'adulto che lo teneva per mano.
Li sorvolò ed andò oltre perché quello era, da sempre, abituata a fare.
Ma poi lui si mosse, lui la guardò, lui la chiamo, lui la scelse.
E lei non trovò, in quel macigno che le piombò sulle spalle, un solo motivo per dire no.

E seguirono giorni di silenzio, giorni in fuga, giorni a fingere che in fondo era normale così.
Alberghi, case, i chilometri e loro tre, in un curioso equilibrio triangolare che per un po' le sembrò la perfezione.

Ormai non manca molto alla città nella quale lei ha promesso di accompagnarli: qualche altro giorno di viaggio, altre parole, altro aiuto, altre notti di quella specie di amore ed altro, prezioso, reciproco, conforto.

Non sa bene cosa succederà una volta arrivati e non le importa ma sa che per lei non finirà lì. Lei è dentro, ormai. Lei ce li ha dentro. Lei è l'incubatrice.

Se apre le mani li può vedere, quei due, quelli che senza di lei non ce la faranno mai.

Non porta via niente con sè, stanotte. Stanotte è la notte in cui decide di andare via.
Si alza dal letto e prende lo zaino, immagina gli occhi dell'uomo dietro le palpebre chiuse, pensa che se lei avesse ancora un'anima avrebbe voluto toccare la sua, di anima, anche se per poco.
Gli sistema un ciuffo di capelli sulla fronte. Pensa che è bello.

Poi guarda il bambino, inaspettatamente lui apre gli occhi e la guarda per qualche secondo.
Quello che vede dipinto sul volto di quell'impenetrabile esserino, si chiama delusione.

lunedì 15 dicembre 2014

Vent'anni di ferite.


La prima frase l'ha scritta una mia compagna di corso, Federica, durante un'esercitazione. Poi mi è stata assegnata per inserirla nel contesto di un mio racconto.
Il primo pensiero è stato: "e adesso che ci faccio con tutta questa vita?".
Ecco cosa ci ho fatto. 


L’auricolare blu pende dalla tasca della sua giacca a quadri, io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Gaber si mescola alle voci e ai suoni che la circondano. Sorride di nuovo, che strano accostamento: Gaber a Berlino.”


Chiudi quel diario, smetti di rileggere quelle vecchie parole. Avevi solo 20 anni e non capivi niente:  non capivi le persone, non capivi la musica, né tantomeno le città.
E soprattutto non capivi le ferite, perché Berlino è quello: Berlino è una  citta ed è anche una ferita.  Una ferita che l’ha attraversata e la attraversa ancora da parte a parte, ma tu a vent’anni non lo sapevi.

Le  ferite però  sapevano un po’ di te, ti conoscevano, a loro piacevi. E a te piacevano loro. Seguivi con curiosità la lama che si faceva rossa, trattenevi il fiato durante l’attimo in cui i lembi della pelle diventavano bianchi  per poi d’improvviso ricoprirsi di sangue. E col sangue giungeva anche lo stupore. Perché ogni volta ti sorprendevi di quanto rosso avessi dentro.

Lo facevi solo per lui, era la tua esibizione per un unico spettatore mai pagante, lo facevi per mostrargli tutto di te, anche il rosso denso che ti riempiva. Per mostrargli tutto quello che non gli avresti mai dato.

Volevi solo cavare da quegli occhi neri ed immobili un lampo di una qualsiasi luce. Ma le sue orbite erano scure e quello che contenevano appariva avido e vuoto, così vuoto che ogni volta che ci cadevi dentro ne riemergevi a fatica e lentamente riprendevi piano a respirare. 
Esiste qualcuno che ha dovuto imparare a respirare? Tu sì, di certo.

Ed  ogni volta che il sangue perso era troppo, perdevi anche i sensi e con loro il senso di quello che stavi facendo.  Ma quegli occhi erano l’unico vuoto da cui valeva la pena farsi riempire.

Ed  era allora che il fiato se ne andava lasciando il posto alla paura e con lei anche alla smania stupida di non voler  morire, di rimanere aggrappata a quella vita che ti ostinavi a voler scacciare via lontano da te.

Perché avevi solo vent’anni e non sapevi come vivere e così le ore, i giorni, i mesi te li lasciavi scivolare addosso, come l’acqua sotto la doccia, come delle mani nuove  ed appena conosciute lungo la schiena.

Hai chiuso quel diario? Non ancora? Fallo, per favore. Ricordare la te di tanti anni fa, quella che si sentiva libera vagando senza metà per la città,  che costeggiava il muro e lo faceva sfiorandolo con le dita come si fa con una ferita, provando ad immaginare il momento esatto in cui è stata inferta, la te che viaggiava sui pullman di notte dispiaciuta dal non riuscire a provare paura. Ricordarla, non ti aiuterà a sopravvivere a questa notte.

Stanotte sono tornati i fantasmi e il tuo spettatore ha acquistato un altro biglietto, forse l’ultimo
“Sono a Berlino, vediamoci”, ti ha scritto.

Ma tu lo sai che dell’altra vita sono rimasti solo piccoli e patetici segni orizzontali sugli avambracci e ci potresti giurare, il vuoto nero dei suoi occhi. 

Chiudi quel diario, perché il resto, tutto quello che i tuoi vent’anni riuscivano a contenere, non esiste più.
E’ un fantasma quello che torna da te sicuro di trovarti immutata ed immobile, pretendendo, dopo  tutto questo tempo, di riempirti ancora di vuoto. Come è possibile, se tu cambi ogni ora?

Chiudi gli occhi, trattieni il respiro, aspetta il bianco, sorridi.
Il tuo sangue ha cambiato colore, lo avresti mai detto?



sabato 29 novembre 2014

Un esercizio non riuscito


Poggia le tempie sulle mattonelle bianche del cesso.
Spera di ritrovare così quella lucidità che ha perso ormai da qualche ora.
Si siede sul water ma non per fare la pipì. Ha tenuto anche i pantaloni ma ha bisogno di fermarsi un attimo.
Guarda davanti a sè: gli adesivi attaccati alle pareti le danzano davanti agli occhi come piccoli folletti neri e spiritati. Chiude gli occhi.

"Andatevene a fanculo" gli dice "io ho bisogno di tornare".

Con movimenti che è certa siano lentissimi, apre il rubinetto bianco di calcare e lascia scorrere l'acqua, poggia le mani sul bordo del lavandino e si guarda allo specchio senza in realtà vedersi.
"Hai dimenticato gli occhiali" si dice.
"Tu non hai gli occhiali" si risponde. E ride.

Ride in compagnia della sua solitudine mentre prova a mettersi a fuoco: sfatta, sconvolta, come una bomba appena esplosa.

È successo ancora. Facciamo presto, s'era detto ed invece eccola di nuovo nel bagno lurido di un locale a lottare contro il vomito che poi alla fine, se lo assecondasse, non sarebbe meglio?

Ma lei non ha mai amato vomitare. Non ha mai amato nemmeno sentire le budella rivoltarsi in cerca di via di uscita. Eppure.

La musica la raggiunge ormai ovattata e lontana. Le luci non l'aiutano, sottolineando il trucco colato come quello di una star in declino.
Avanzando faticosamente di dieci lunghissimi centrimetri, le sue mani raggiungono l'acqua e con un gesto automatico balzato fuori da chissà quale cassetto della memoria, si bagna i polsi. 
"Questo ora lo metti nel cassettino della memoria", le diceva suo padre, "e quando ti servirà tonerà fuori."
Stavolta dal cassetto è balzata fuori lei da piccola che finiva di correre e scatenarsi e poi sua madre, pronta ad inibire la sua voglia di bere acqua ghiacciata, con un noioso quanto legittimo: "prima bagnati i polsi!"

"Sì mamma, me li sto bagnando, vedi? Ma ho la sensazione che non cambierà di molto le cose. Non stavolta" Sorride di se stessa, prigioniera del suo non avere limiti, in un cesso bianco. 
La principessa, il drago, la torre. Lei, ancora lei ed un cesso.

Poi si butta un po' d'acqua sul viso e prova pateticamente a rendersi di nuovo presentabile: p
rende la carta grigia che staziona sul davanzale polveroso da chissà quanto tempo. Si tampona il volto ormai livido
Passa la carta anche sulle occhiaie, cercando di cancellare il nero della matita che indisciplinato è uscito dal bordo degli occhi ed è andato a poggiarsi alla perfezione sul rigonfiamento naturale che staziona fedele sotto i suoi occhi, anche nei momenti migliori delle sue giornate.
Respira profondamente, getta un ultimo sguardo allo specchio pensando che almeno i capelli non sono poi messi così male, mette la mano sulla maniglia e la stringe "Non può essere così difficile, esci di qui."

lunedì 24 novembre 2014

Scritturoterapia. Un lunedì piovoso.



Abbiamo ascoltato un brano e no, durante l'ascolto non potevamo scrivere. E io mi sono sentita le mani bruciare, il volto avvampare e il cuore sobbalzare in petto per il divieto imposto.
Non scrivere.
Un treno che sbuffa, che parte, che aspetta. Ferro. Kilometri. Viaggi senza senso. 

-No, non puoi, aspetta. Non puoi segnarti niente, anzi non prendere proprio la penna in mano. Aspetta-
Poi l'abbiamo ascoltato di nuovo e lì sì, lì abbiamo potuto scrivere.

E io ho scritto questo.



Nina trascorreva ore intere su treni che non portavano mai da nessuna parte.
Aveva poco con sé ma quel poco era tutto il suo necessario.
Arrivava alla stazione della sua città in orari imprecisati del giorno e della notte, prendeva un thè, leggeva qualche pagina del libro che aveva in borsa e controllava allo specchietto gli occhi sempre sfatti. 


Poi, come in un rituale senza senso alcuno, si metteva sotto al tabellone luminoso degli arrivi. Si spostava poi verso il binario che per primo avrebbe accolto quel fiume deforme di carne, pensieri ed aspettative.
Li guardava sistemare con cura giacche e bagagli, qualcuno si tastava vigorosamente per assicurarsi di non aver abbandonato nulla sul sedile ancora caldo dopo ore di stretto contatto.
Molti avevano gli occhi lucidi. Avete idea di quanta gente pianga lungo i binari?


Poi arrivava il suo turno, si spostava sotto il tabellone delle partenze, chiudeva gli occhi, li riapriva e coglieva la prima meta apparire luminosa ai suoi occhi.
Torino.

Via.

Il biglietto lo faceva sempre a bordo. Il procedimento con cui sceglieva il posto invece non era altrettanto casuale, c'era uno studio dietro, un'analisi accurata che non starò qui a raccontarvi.

Una volta giunta al suo posto si metteva comoda ed iniziava a scrivere.

Scriveva di quello che le sarebbe accaduto una volta giunta.
Senza nessun appuntamento, incontro, destinazione.
Una volta scrisse dell'incontro con una vecchia antiquaria con la quale avrebbe parlato degli oggetti e del senso di possesso che scatenano in noi.
Delle storie, spesso più noiose di quanto vorremmo immaginare, di chi li ha avuti.

Poi ci fu un uomo, al quale scrisse -avrebbe donato il suo cuore, se solo ricordasse dove lo aveva cacciato. 
E via dicendo, personaggi inesistenti che l'aspettavano da qualche parte una volta giunta alla stazione.

Poi, finito il viaggio, rimetteva le sue cose nella borsa e scendeva al binario: lo sguardo che lanciava intorno a sé era sempre di sottecchi. Era incuranza e mai speranza.
E poi thé, libro, tabellone.

venerdì 17 ottobre 2014

4uattro

[Era un lunedì sera, i miei piani erano quelli di rimanere le solite due ore nella stanza durante il corso di scrittura ed invece sono stata spiazzata dalla consegna dell'esercizio che è stata "uscite e guardatevi intorno poi tornate dentro e scrivete".
Io ho fatto un giro di palazzo e mi sono ritrovata a pensare a quanto grandi siano i palazzi a Berlino, più grandi di Roma e di conseguenza quanto più lunghi siano i giri di palazzo.
Io sono cresciuta facendo i giri di palazzo, hanno segnato metro dopo metro il mio diventare grande.
Poi mi sono messa a guardare dentro le finestre, perché qui senza l'abitudine delle tende mi viene spontaneo infilarmi un po' nelle vite delle persone.
Poi sono rientrata ed ho scritto questo.]



Non è la prima volta che mi succede eppure non riesco ancora a gestire la situazione e questo, mi rendo conto, non va bene.
Ora mi rilasso, sorrido, abbasso queste spalle contratte e cerco di capire dove e soprattutto con chi, sono.
Ma lo devo fare in fretta o penseranno che mi stia venendo un ictus, non vorrei mi succedesse come tempo fa che mia madre si spaventò  a tal punto da portarmi all’ospedale.

Comunque ormai dovrei aver capito come funziona: ronzio e ciao. Mi ritrovo di la. O di la. O di la. Dipende.
Da che dipende non lo ho invece  ancora capito e ho la sensazione che non lo capirò mai: non ci sono nessi logici, motivi o spiegazioni, non c’è un prima né un dopo, non c’è niente che scateni tutto questo.
Succede e basta, così come è successo e basta la prima volta.


No, non penso siano state le droghe anche se effettivamente la prima volta ero sotto trip e ci ho messo una quantità di tempo notevole  a capire che mi stava succedendo davvero e che non era la solita allucinazione, non come l’etichetta della bottiglia di birra che mi parla o la tazza per la colazione che mi risucchia la testa o le nuvole che si trasformano in ovatta, mi si infilano nelle orecchie e bisbigliano.

No.
Niente di tutto ciò, io ho semplicemente a disposizione più vite da vivere ed in fondo, è quello che sempre desiderato.
Ogni volta che, per motivi pratici, non sono riuscita a visitare un posto che avrei tanto voluto vedere oppure ho conosciuto una persona con la quale ho sentito un legame forte, quasi viscerale, un’affinità immotivata e non facilmente assecondabile, non mi sono sempre detta: “chissà, forse in un’altra vita?!”

Ecco, ora ho le mie altre vite: devo solo cercare di capire come vivermele senza sembrare una dissociata bipolare in ognuna di esse.

Dimenticate tutti i film che avete visto sull'argomento, perché nelle mie vite non ci sono la cabina del Dottor Who né il ripostiglio del libro di King, ma poi era davvero un ripostiglio? Dovrei rileggerlo.
Nelle mie vite non ci sono strani portali, l’unico portale è nella mia testa. Anzi, forse è proprio la mia testa, a me piace pensare che avvenga una specie di corto circuito tanto per intenderci.


Io sono e resto sempre una donna di 40 anni, il mio nome è sempre Lisa, ho una madre, un padre, una sorella, un cane, un figlio, un marito, una compagna, un migliore amico, una migliore amica, tantissimi conoscenti ma queste persone non rivestono necessariamente gli stessi ruoli nelle stesse vite.
Avete capito? Ovviamente no. Non posso biasimarvi, neanche io capirei.

Comunque, questa che vedete venirmi incontro premurosa e con l’aria di chi sa è Enrica ed in questa vita è la mia compagna. A lei ho raccontato di questi miei –chiamiamoli- salti, di queste mie vite, di questo mio dovermi dividere.  È una delle pochissime persone che ne è a conoscenza, se non altro perché era con me la prima volta che è accaduto.


Quando è accaduto ero nell’altra vita, quella nella quale lei è soltanto la mia migliore amica e all'epoca passavamo tanto tempo insieme, il venerdì sera ad ubriacarci al pub, le chiacchere, le confidenze, lo shopping  e le risate e nessuna delle due aveva mai nemmeno preso in considerazione l’ipotesi  di mettersi insieme ad una donna, anzi, il solo pensiero ci faceva ridere imbarazzate ed invece in quest’altra vita siamo felicemente insieme da anni ed attualmente alla ricerca di un donatore di seme. Lei è gelosa delle mie altre esistenze, tanto che alla fine non le racconto più i dettagli.

I primi tempi invece passavamo giornate intere a parlare delle mie altre vite, di quelle dove lei non è la mia compagna ma, appunto, la mia migliore amica, la mia istruttrice in palestra o la mia dog sitter.
Parlavo continuamente del fatto che in due vite su quattro lei non aveva per me nessun tipo di importanza o comunque, non quell’ importanza.
Ci stava male ed io potevo capirla e soprattutto non avevo niente da dirle per farla stare meglio, quindi abbiamo smesso di parlarne ed ora fingiamo entrambe che vada tutto bene.

Questo invece è Tommaso: il mio migliore amico in questa vita ma anche mio marito, mio zio (sì, lo so, fa un po’ impressione) e il mio psicoterapeuta (e qui Freud si farebbe una bella risata). 


In una sola vita ho un figlio, in un’altra invece sono sterile.  In tre vite su quattro vado in scooter, solo in una vita guido la macchina. In tutte le mie vite fumo.
E così via, tra mille piccole o grandi differenze che ad elencarle non finiremmo più.

Quello che vorrei capiste è che io non posso mai sapere, in nessun momento, cosa accadrà, dove mi troverò, con chi e a fare cosa. Sono passata dalla fila alla posta al fare l’amore in un secondo. Dal ristorante al bagno di casa. Dal silenzio della biblioteca ad un concerto.  E così via.

Le prime volte la mia grande paura era quella di sparire da una vita per andare in un'altra, mi domandavo cosa avrebbero pensato le persone di queste mie sparizioni, non riuscivo ad immaginare le loro reazioni e temevo le conseguenze poi ho capito, anzi Enrica mi ha rassicurata spiegandomi che io in realtà non sparisco davvero, io rimango lì presente fisicamente ed anche mentalmente, solo dopo anni lei ora sa capire quando mi sta per succedere, ha imparato a riconoscere il momento del salto : dice che mi assento per qualche secondo ma bisogna sapere quello che mi succede, per potersene accorgere.

Avete capito ora? Prendete un mazzo di carte, mischiatelo e disponetele sul tavolo. Osservatele. Ora riprendetelo, mischiatelo di nuovo e mettetele nuovamente sul tavolo. Osservatele di nuovo.
Ecco, queste sono le mie vite: stessi personaggi, ruoli diversi.  E mille combinazioni, mille sentimenti, mille sensazioni.

Una sola eccezione: i miei genitori, che sono loro in tutte le mie vite, che mi salvano dalla follia, che sono il mio filo rosso da seguire per non perdermi mai.

E poi me stessa, la mia traballante certezza, quella che si sentiva troppo stretta in una vita sola ed ora si sente quasi sempre persa, saltellando da una vita all’altra.

martedì 7 ottobre 2014

Eloise





La signora che paziente attende il suo turno in pasticceria si chiama Eloise.  O almeno è il modo in cui si fa chiamare negli ultimi 20 anni.
I capelli che iniziano ad ingrigirsi lei li tiene raccolti in un anonima crocchia pur di non rinunciare al vezzo di tenerli lunghi, infatti se li scioglie le arrivano quasi al sedere.

L'unico segno particolare che aveva e cioè un neo sotto l'occhio, se lo fece rimuovere anni fa.
Insinuò nel dermatologo il dubbio che potesse essere brutto, gli raccontò di come sua madre fosse morta proprio di melanoma alla pelle ed in questo modo riuscì ad ottenere quell'intervento.

Non ha più amici se si esclude il fioraio, con cui beve qualche innocente the il lunedì pomeriggio quando torna dall'incontro di lettura con quelle vecchie noiose, o meglio, lei le vive come tali pur essendo in realtà sue coetanee, quelle vecchie che leggono sempre brani di un amore banale e lontano o se proprio vogliono trasgredire qualche passo di Grishman.

Per tanti anni non ha avuto più contatti con la sua unica famiglia, qualche anno fa la sua unica nipote riuscì sorprendentemente a trovarla, lei negò per mesi di essere davvero la nonna, le diceva con voce dolce e rassicurante: "signorina, si sbaglia. I miei nipotini vivono in Francia" ma quando poi vide nello sguardo la determinazione e la rabbia che le ricordarono la lei di tanti anni fa, si arrese.

Per fortuna quella ragazza non aveva preso niente da quello stupido del figlio.

La nipote non le chiese mai perché avesse cambiato città ed identità e lei, del resto, non aveva nessuna intenzione di dirglielo.
Ma le faceva piacere ricevere quelle, fortunatamente rare, visite.


È stanca di scappare, di cambiare identità e colore dei capelli e la paura inizia pericolosamente ad affievolirsi, anche se è sempre con lei. E pensandoci bene, non saprebbe dire se la paura più grande sia quella di essere riconosciuta come l'autrice dell'omicidio di tre uomini o quella di venire punita per quello che ha fatto, magari da Dio, sulla cui esistenza ha ancora qualche dubbio.

Odia la vecchiaia, la fa sentire debole. Vorrebbe essere ancora quella giovane donna di un tempo: bella, sicura di sé, che non si fermava davanti a niente a nessuno e non questa versione di sé stessa rattrappita, timorosa, inaridita e grigia.


È quasi il suo turno, sorride paziente alla lentissima commessa e nel farlo tira fuori dalla tasca una collana con un ciondolo a forma di croce.
È il feticcio che l'accompagna da quasi 30 anni ormai, lo stesso che la sua mano sporca di sangue e terra strappò dal collo di Leonard tanti anni fa.



Tre ore

Di quel giorno non ricorda quasi più niente, ma se una cosa le è rimasta impressa nella memoria è proprio l'ipnotico movimento oscillante che la collana faceva davanti al suo naso: a volte le sfiorava la fronte, a volte le accarezzava le guance. 
Se c'è una cosa che non ha dimenticato in tutti questi anni e che mai dimenticherà è proprio quel ciondolo a forma di croce che si comportò in modo così stridente con il resto della situazione. 

In un lago di sangue, lacrime, dolore, urina, quel ciondolo sovvertì tutte le regole e lo fece accarezzandola delicatamente come a dirle, ci sono io, non ti preoccupare, ora passerà tutto.
Quel ciondolo, quel movimento, quelle carezze le diedero la possibilità di fuggire da quella agghiacciante realtà e di rintanarsi in un mondo piccolo piccolo e tutto suo, in cui riceveva delle carezze sul viso, un solletico sul naso, dei colpetti sulla fronte.
Quel giorno furono il ciondolo e la collana a salvarle la vita.

Leonard naturalmente non si accorse di nulla e nemmeno gli altri due che a turno le furono sopra, o dietro, se qualcuno si fosse accorto di quello che stava succedendo tra lei e la collana, di sicuro l'avrebbe fatta sparire. Perché lei non doveva provare nessun tipo di sollievo.

Per fortuna a toglierla da quel collo fu lei e solo lei e non la sfilò mai più dalla tasca nella quale la nascose, quasi come se avesse sentito da subito che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lei, per ricordarle il suo nome, p
er ricordarle chi era e cosa era invece diventata dopo quel giorno.

Erano ormai tre ore che era rinchiusa in quello scantinato e che quei tre corpi si sfogavano con il suo corpo, sul suo corpo, nel suo corpo. Chissà cosa li aveva portati a scegliere proprio lei, chissà se era la prima, sicuramente non sarà stata l'ultima. 

Quando Leonard le propose di andare a finire la serata bevendo qualcosa a casa di un suo amico, non poteva immaginare che sarebbe finita così, che sarebbe finita a sperare di morire pur cercando di rimanere in vita. 
Che poi se fosse morta, pensava, gli avrebbe tolto il gusto di continuare ma nemmeno di questo era poi tanto certa.



L'esercizio era inventare un personaggio. Il corso sempre quello delle Balene

martedì 23 settembre 2014

Incipit

Come forse saprete, o forse no, sto seguendo un corso di scrittura creativa in italiano qui a Berlino, per l'esattezza quello di Le Balene possono volare.
Non mi sono vergognata mai di raccontare cose intime e personali ed invece -sorpresa- mi riscopro timorosa nel lasciarvi affacciare all'interno della mia fantasia.
Di immaginare, 
di lasciarmi ispirare.
Guidare.
Insegnare.

Ma mi piace, mi piacciono i miei limiti e le mie insicurezze. Ed ogni tanto, mi piace quello che scrivo.

No, il sole no. Vi prego.

Quando batte il sole lo fa così forte e in maniera così asfissiante che le sembra ogni volta di morire.
Il secchio in cui le lasciano quel poco di acqua sembra ogni giorno più lontano, non sarebbe stupita nello scoprire che non è un caso e che la cosa sia voluta.
Ogni volta qualche centimentro più lontano, così che diventi più faticoso raggiungere quell’acqua putrida eppure indispensabile. Solo un centimentro che però si fa sentire tutto.

Non avrebbe mai pensato che un centimetro potesse significare tanto, se invece la catena che le stringe la caviglia si potesse allentare anche di un solo mezzo centimetro, la pelle non si scarnificherebbe come invece sta facendo. E poi quelle mosche che girano intorno alla sua ferita infetta e che la preoccupano un po’.

Le sbarre della gabbia sono ormai infuocate e la prima volta che è successo, ha urlato e pianto così forte che uno si loro si è mosso a pietà o forse non ne poteva semplicemente più ed ha coperto la gabbia con un grosso telo nero, come si fa coi pappagalli per farli smettere di cantare o parlare.
A lei è piaciuto e quando l’aria iniziava a scarseggiare, poteva avvicinare il naso, scostare un po’ il telo e respirare forte.
Fu una bella giornata quella, poi svenne. E quando si riprese il telo era sparito ed era buio.


Le fanno sempre degli indovinelli prima di darle da mangiare e quando non indovina non mangia: questa è la regola.