domenica 30 novembre 2014

L'eco caldo del prossimo gennaio.


Pur di non ascoltare il rumore evocativo di un'ipotetica strada da percorrere, ti stordisci di musica.
Quel rumore, per intenderci, che producono i tuoi piedi che uno dopo l'altro si sfiorano, si avvicendano al posto di comando, lottano per emergere da cumuli di foglie con la sola ostinata intenzione di procedere. Piedi piccoli e testardi che hanno la discutibile missione di portarti in luoghi più o meno conosciuti. Spesso semplicemente a casa.
Musica vecchia, musica nuova, musica vecchia ascoltata con orecchie nuove. 
Qui ed ora, come quel tatuaggio che nessun inchiostro ha mai inciso sulla tua pelle.

Eppure oggi, tra il cielo grigio e nessun programma, ti è balzato in mente che tra un mese sarà gennaio.

Tra un mese sarà un anno da quando il mondo è cambiato, il tuo mondo, quello dentro, quello che a volte sembra essere nella testa di tutti e altre invece è sconosciuto persino a te stessa.
Un anno da quando camminavi per luoghi apparentemente indifferenti che eri invece costretta dagli eventi ad odiare, un anno dai giorni trascorsi con gli occhi socchiusi per non permettere a tutta quella normalità di filtrarti attraverso e di divenire termine di paragone con l'anormalità mostruosa nella quale eri precipitata. O che ti era precipitata dentro.

Un anno da quel vuoto che campeggiava al centro del tuo corpo: dal seno alle cosce avresti potuto sentire l'eco dell’attesa.
L’eco è sparito e al suo posto è tornata la consapevole e calda presenza del tuo esserci. E del tuo percepirti.

Tra un mese festeggerai questo primo anniversario e lo farai brindando alla tua decadente bellezza, al tuo non avere età, sogni, progetti. Alle borse sotto agli occhi e alle dita tra i capelli.
Alle parole scritte, a quelle dette e quelle che rimarranno per sempre incastrate in un limbo di confusione.
Come quando apri la bocca e la voce non esce o esce troppo in fretta o modulata male.
Festeggerai tutto quello che, in qualche modo, hai pensato di dover cambiare.
Festeggerai il fatto di non esserci riuscita.

sabato 29 novembre 2014

Un esercizio non riuscito


Poggia le tempie sulle mattonelle bianche del cesso.
Spera di ritrovare così quella lucidità che ha perso ormai da qualche ora.
Si siede sul water ma non per fare la pipì. Ha tenuto anche i pantaloni ma ha bisogno di fermarsi un attimo.
Guarda davanti a sè: gli adesivi attaccati alle pareti le danzano davanti agli occhi come piccoli folletti neri e spiritati. Chiude gli occhi.

"Andatevene a fanculo" gli dice "io ho bisogno di tornare".

Con movimenti che è certa siano lentissimi, apre il rubinetto bianco di calcare e lascia scorrere l'acqua, poggia le mani sul bordo del lavandino e si guarda allo specchio senza in realtà vedersi.
"Hai dimenticato gli occhiali" si dice.
"Tu non hai gli occhiali" si risponde. E ride.

Ride in compagnia della sua solitudine mentre prova a mettersi a fuoco: sfatta, sconvolta, come una bomba appena esplosa.

È successo ancora. Facciamo presto, s'era detto ed invece eccola di nuovo nel bagno lurido di un locale a lottare contro il vomito che poi alla fine, se lo assecondasse, non sarebbe meglio?

Ma lei non ha mai amato vomitare. Non ha mai amato nemmeno sentire le budella rivoltarsi in cerca di via di uscita. Eppure.

La musica la raggiunge ormai ovattata e lontana. Le luci non l'aiutano, sottolineando il trucco colato come quello di una star in declino.
Avanzando faticosamente di dieci lunghissimi centrimetri, le sue mani raggiungono l'acqua e con un gesto automatico balzato fuori da chissà quale cassetto della memoria, si bagna i polsi. 
"Questo ora lo metti nel cassettino della memoria", le diceva suo padre, "e quando ti servirà tonerà fuori."
Stavolta dal cassetto è balzata fuori lei da piccola che finiva di correre e scatenarsi e poi sua madre, pronta ad inibire la sua voglia di bere acqua ghiacciata, con un noioso quanto legittimo: "prima bagnati i polsi!"

"Sì mamma, me li sto bagnando, vedi? Ma ho la sensazione che non cambierà di molto le cose. Non stavolta" Sorride di se stessa, prigioniera del suo non avere limiti, in un cesso bianco. 
La principessa, il drago, la torre. Lei, ancora lei ed un cesso.

Poi si butta un po' d'acqua sul viso e prova pateticamente a rendersi di nuovo presentabile: p
rende la carta grigia che staziona sul davanzale polveroso da chissà quanto tempo. Si tampona il volto ormai livido
Passa la carta anche sulle occhiaie, cercando di cancellare il nero della matita che indisciplinato è uscito dal bordo degli occhi ed è andato a poggiarsi alla perfezione sul rigonfiamento naturale che staziona fedele sotto i suoi occhi, anche nei momenti migliori delle sue giornate.
Respira profondamente, getta un ultimo sguardo allo specchio pensando che almeno i capelli non sono poi messi così male, mette la mano sulla maniglia e la stringe "Non può essere così difficile, esci di qui."

lunedì 24 novembre 2014

Scritturoterapia. Un lunedì piovoso.



Abbiamo ascoltato un brano e no, durante l'ascolto non potevamo scrivere. E io mi sono sentita le mani bruciare, il volto avvampare e il cuore sobbalzare in petto per il divieto imposto.
Non scrivere.
Un treno che sbuffa, che parte, che aspetta. Ferro. Kilometri. Viaggi senza senso. 

-No, non puoi, aspetta. Non puoi segnarti niente, anzi non prendere proprio la penna in mano. Aspetta-
Poi l'abbiamo ascoltato di nuovo e lì sì, lì abbiamo potuto scrivere.

E io ho scritto questo.



Nina trascorreva ore intere su treni che non portavano mai da nessuna parte.
Aveva poco con sé ma quel poco era tutto il suo necessario.
Arrivava alla stazione della sua città in orari imprecisati del giorno e della notte, prendeva un thè, leggeva qualche pagina del libro che aveva in borsa e controllava allo specchietto gli occhi sempre sfatti. 


Poi, come in un rituale senza senso alcuno, si metteva sotto al tabellone luminoso degli arrivi. Si spostava poi verso il binario che per primo avrebbe accolto quel fiume deforme di carne, pensieri ed aspettative.
Li guardava sistemare con cura giacche e bagagli, qualcuno si tastava vigorosamente per assicurarsi di non aver abbandonato nulla sul sedile ancora caldo dopo ore di stretto contatto.
Molti avevano gli occhi lucidi. Avete idea di quanta gente pianga lungo i binari?


Poi arrivava il suo turno, si spostava sotto il tabellone delle partenze, chiudeva gli occhi, li riapriva e coglieva la prima meta apparire luminosa ai suoi occhi.
Torino.

Via.

Il biglietto lo faceva sempre a bordo. Il procedimento con cui sceglieva il posto invece non era altrettanto casuale, c'era uno studio dietro, un'analisi accurata che non starò qui a raccontarvi.

Una volta giunta al suo posto si metteva comoda ed iniziava a scrivere.

Scriveva di quello che le sarebbe accaduto una volta giunta.
Senza nessun appuntamento, incontro, destinazione.
Una volta scrisse dell'incontro con una vecchia antiquaria con la quale avrebbe parlato degli oggetti e del senso di possesso che scatenano in noi.
Delle storie, spesso più noiose di quanto vorremmo immaginare, di chi li ha avuti.

Poi ci fu un uomo, al quale scrisse -avrebbe donato il suo cuore, se solo ricordasse dove lo aveva cacciato. 
E via dicendo, personaggi inesistenti che l'aspettavano da qualche parte una volta giunta alla stazione.

Poi, finito il viaggio, rimetteva le sue cose nella borsa e scendeva al binario: lo sguardo che lanciava intorno a sé era sempre di sottecchi. Era incuranza e mai speranza.
E poi thé, libro, tabellone.