lunedì 25 novembre 2013

Inverni poco diplomatici



Qui pare che il famigerato freddo stia per arrivare.

Non so bene il perché ma io non ho mai avuto una passione per il meteo, non l'ho mai controllato, non ho mai pensato fosse importante sapere se farà freddo o farà caldo per pianificare qualcosa, per prendere una decisione o meno.
Eccezion fatta per la divertentissima neve a  Roma che ha rincoglionito un po' tutti come l'arrivo di un neonato in casa.
Ma per il resto, non me ne è mai fregato molto del meteo (e te credo sei sempre stata a Roma, direte voi. E c'avete ragione, c'avete) tanto che mi ha sempre colta impreparata.
Ma il primo inverno a Berlino cambierà tutto.


Perché se non hai ancora vissuto  il primo inverno a Berlino non puoi parlare, è come se avessi l'Anmeldung in standby, come se l'Aire aspettasse di vedere se tu sopravviverai, per accettare la tua iscrizione.


E a questo punto inizi a fremere, te lo vuoi togliere sto dente, vuoi che arrivi sto cavolo di primo inverno a Berlino, vuoi che arrivi come quando devi andare dal dentista e levamose sto pensiero.

Perché tutti parlano del primo inverno a Berlino pure quelli che qua ci sono stati solo ad agosto.
E comunque ti ritrovi un pomeriggio di novembre a passeggiare al lago, alle quattro di pomeriggio e trovi l'erba ghiacciata e pensi che ci sarà un motivo se è così famoso, il primo inverno a Berlino.
Io ho comprato i paraorecchie e mi sembra già un buon punto di partenza.



E niente, poi scrivo. 

E ultimamente ho scritto anche sapendo che sarei stata letta e non solo da voi amici, parenti, sventurati, coraggiosi, fedeli ma anche da gente che abitualmente legge blog seri.
Gente che ha letto volentieri della mia avventura a Berlino, della mia vita stravolta negli ultimi mesi, della mia felicità e del mio essere assolutamente convinta di aver fatto la cosa più giusta.

Gente che mi ha letta e che mi ha anche scritto, tanto. Lasciandomi stupita, felice. Facendosi conoscere e con l'intento di conoscermi o di chiedermi consigli che forse non sono -e mai sarò- in grado di dare.


E probabilmente continuerò anche a scrivere per essere letta da chiunque vorrà farlo, proverò a farmi leggere da sempre più persone perché mi piace.
E perché mi piacerebbe raccontarvi un sacco di cose, per esempio della mia amica Reut che viene da Israele e di altre persone italiane che vivono qui con più o meno difficoltà.

Insomma, se vi va, restate all'ascolto. 

Però vi devo dire una cosa: io non potrò mai diventare politicamente corretta, educata e a modino. Non avrò mai quei sorrisini di circostanza e una parola buona per tutti per paura di inimicarmi qualcuno.

Per esempio per lavoro devo essere tanto gentile e la cosa divertente è che per fortuna posso usare dei nick name.
Coi nick name sono buona e col mio vero nome sono un troll, ma com'è sta storia?

No io ve lo voglio dire, ci tengo, perché è bene che lo cose si mettano in chiaro da subito, se mi scappa da bestemmiare, mi scappa.
Se devo smerdare un blogger perché dopo aver cavalcato l'onda di Berlino, sputa nel piatto dove ha mangiato partecipando ad una trasmissione scempio nella quale a suon di luoghi comuni e stereotipi provinciali e miseri si affossa la città, io lo smerdo.
E poco mi importa che a leggermi siano mamma, zia o centinaia di persone. Per me è uguale.
Io scrivo come se non mi dovesse leggere nessuno. Io scrivo come se non ci fosse un domani.
E sarà sempre così.
Stiamoci.


Questo per dire che se da domani per questi ed altri motivi non mi leggerete più, il mio blog morirà felice. Morirà solo, ma leggero e felice.

Non avevo aperto il blog per scrivere niente di tutto ciò ma questo è uscito e questo ci teniamo.
Ed è tanto liberatorio. 




sabato 9 novembre 2013

9/11

Oggi è l'anniversario della caduta del Muro ed io dovrei essere ad East Side Gallery dove pare esserci una specie di manifestazione.
Oppure dovrei andare al Flash Mob.


Invece me ne starò qui a guardare Grey's Anatomy, a mangiare biscotti al cioccolato, a piangere e a parlarvi de L'Aquila.
L'Aquila, Abruzzo.
Ed anche se sono arrivata tardi (forse di un giorno), lo farò lo stesso.

Chi mi conosce sa quanto la tragedia de L'Aquila  mi abbia colpita nel profondo, tanto nel profondo che decisi da quasi subito di recarmi sul luogo, per vedere coi miei occhi.
Inizialmente restia, indecisa, spaventata all'idea di essere scambiata per una turista del macabro (o di sentirmi tale) ma poi convinta di quanto fosse necessario invece vedere coi proprio occhi quello che era accaduto.
E fu così che il terremoto mi crollò addosso con tutta la sua violenza: non la città, per mia fortuna. Ma il terremoto, tutto quello che era incredibilmente accaduto: finestre spalancate, armadi per strada, visi stanchi, gente senza casa, disperazione, strade silenziose, militari, buio.
E mi caddero addosso anche le cose belle: Casematte, la voglia di ripartire, di lottare, le manifestazioni, l'odore di camino.

Per mesi non pensai ad altro, seguii tutte le vicende, le seguii con attenzione. 
Perché fin dall'inizio ebbi la sensazione che l'Aquila altro non fosse che il nostro avamposto, il primo pezzo crollato, al quale ne sarebbero seguiti tanti altri, la nostra metafora.
Città tradita non dalla natura, ma dall'uomo: dal malaffare, dalla politica, dagli interessi.
Seguii ed aiutai, a modo mio. E in un modo poco utile forse ma l'unico che conoscevo ed ancora conosco: scrivendo. 

Qui  uno dei vari pezzi che scrissi ma sono certa che cercando "Addei L'Aquila" dai meandri di Google uscirà qualcosa, fatelo. 
Nel caso in cui ne abbiate voglia.

Non voglio raccontare ora, tutto quello che provai in quei giorni, anzi in quei mesi né voglio raccontare delle persone che incontrai.
E' tutto scritto, da qualche parte, basta cercare.
Nel caso in cui ne abbiate voglia.

Voglio raccontarvi invece delle coincidenze che non esistono e dei deliri di onnipotenza: due giorni fa Jacopo scrive un articolo su L'Aquila e mi cita, parte immediatamente il mio pensiero su quello che fu quel periodo e mi dico: "devo riprendere in mano le informazioni in merito, sto trascurando quest'argomento che tanto mi sta a cuore. Non mi piace."
Oggi vengo a sapere che una delle persone che conobbi in quei giorni e che tra le tante mi colpì per determinazione, sorriso, schiettezza, sana follia, voglia di lottare si è tolta la vita.

E non ho potuto non sentirmi, da brava egocentrica, in colpa.
Perché se gli aquilani sono stati abbandonati da tutti, dalle istituzioni immediatamente e poi anche dagli italiani stessi, mi rendo conto solo oggi di quanto siano stati abbandonati anche da me, con l'unica differenza che io inizialmente ho provato a stargli vicino.

Ed ora questa persona che mi sembrava meravigliosa non c'è più ed io se da un lato vorrei tacere per rispetto di chi ora starà soffrendo davvero, in quanto credo fermamente nella gerarchia del dolore, dall'altro però non posso non ricordare, non stupirmi, non soffrire per quello sguardo arguto, quella lingua lunga, quella voglia di combattere.
E pensare che, incredibilmente, non ci sono più. Non c'è più lui.

Non posso non ricordare come, durante un'accesa assemblea cittadina mi chiese di prendere il suo spazio per parlare.
E io, ospite in punta di piedi ma bisognosa di chiarire un punto di vista e specificare che qualcuno non stava dicendo la verità, lo feci.

Chi mi conosce sa anche quanto, per quanto sfacciata possa apparire, io in realtà mi vergogni come una ladra di parlare in pubblico, e così rossa come un vergognoso peperone, lo feci e lui mi guardò dandomi coraggio e quel pizzico di follia.
Dovevo farlo per loro, era l'unica -piccolissima- cosa che in quel momento potevo fare. 
E prendendo fiato lo feci. Dissi quella che in quel momento era la mia verità. Anzi LA verità.

Ecco, avevo solo un bisogno egoistico di tirare fuori questo ricordo.
Di stupirmi, di soffrire in barba alla gerarchia del dolore in cui fermamente credo.

Fabrizio, che tu possa avere pace, ora.

mercoledì 6 novembre 2013

Dal mobbing in Italia alla speranza tedesca.

http://frontierenews.it/2013/11/dal-mobbing-in-italia-alla-speranza-tedesca-storia-di-unitaliana-a-berlino/


Donna, italiana, 36 anni.

Un diploma in ragioneria mai utilizzato del quale non se ne capiscono bene le ragioni, una laurea in Psicologia mai raggiunta. Da sempre ho lavorato con i bambini: da baby sitter ad operatrice ludico-didattica nelle scuole dell’infanzia insegnando teatro.
Un lavoro meraviglioso, prezioso per il solo fatto di poter essere a contatto con i bambini che, nonostante fatica, capricci e arrabbiature, riescono a donare e a insegnare molto, sempre. A modo loro, certo.
Ma gli aspetti positivi e meravigliosi di questo lavoro dopo qualche anno sono stati surclassati daun eterno contratto a progetto che non permetteva un giorno di febbre e dalle incomprensioni con “i grandi”. Ma c’era e andava tenuto stretto.

Accanto a me un uomo che si è sempre districato nelle cucine romane come cuoco. Più o meno soddisfatto, più o meno retribuito ma sempre con contratti sicuri. Poi, tre anni fa, arrivano 7 punti su un dito, il diritto esercitato di mettersi in malattia e la reazione del proprietario del noto e fighetto ristorante romano: due settimane di mobbing ed un licenziamento per esubero di personale. Facile, no?
Gli anni che seguirono ci misero a dura prova e nel frattempo facemmo la conoscenza di Berlino: nuova e vecchissima, un cantiere a cielo aperto, una possibilità, una città terribilmente affascinante. Ammiccante e fredda al tempo stesso, difficile resisterle.
Ma due anni fa non ero ancora pronta e non lo rimpiango.
Non volevo lasciare amici e famiglia e non volevo abbandonare il campo già martoriato ma non ancora completamente abbandonato di quello che era in quegli anni la politica italiana e dove ancora volevo provare a muovermi. Senza vicinanze con nessun partito né ambizioni in quel senso ma spinta dal solo cuore, dalla voglia di civiltà, dall’odio per le ingiustizie alle quali siamo in gran parte assuefatti, istinti primari che mi tenevano sempre con un piede tra piazze e movimenti.
Ma poi, la lotta divenne personale: giornate intere passate a cercare di resistere continuando a fare un lavoro che era diventato frustrante e difficile, un affitto di 1000 euro, condominio escluso, nella periferia Sud-Est di Roma, un marito disoccupato o comunque altalenante, giornate buttate in mezzo al traffico e giorni tutti uguali in cui si aspetta solo che sia sera per trovare rifugio sul divano, lasciando la città che ci rende schiavi e che non riusciamo più ad amare, fuori dalla porta.

E allora, cosa te ne fai di amici e famiglia se tutto quello che riesci a dare loro è senso di sconforto, malcontento, problemi? Forse altrove è possibile.
 Forse altrove può essere migliore. Forse, mi sono detta, dovrei scegliere la qualità del tempo trascorso insieme piuttosto che la quantità. E così abbiamo mollato casa e lavoro (solo il mio, a quel punto) ed organizzato tutto in qualche mese.

Cosa avevamo di certo? I nostri cani, naturalmente. Una macchina per affrontare il viaggio dato che rinchiuderli nella stiva di un aereo non era nostra intenzione, un furgone noleggiato per portare con noi libri, cd, suppellettili, un pezzo di casa insomma, un magazzino dove tenere tutto ciò prenotato per due mesi e una casa-vacanze, più costosa certamente ma per avere la quale non ci hanno fatto nessun tipo di problema, anch’essa prenotata per due mesi.
Due mesi durante i quali, eravamo certi, ci saremmo sistemati. Di mesi ne sono passati quattro, alcune cose non sono andate come avevamo previsto e tra queste, la maggior parte sono andate molto meglio. Mio marito in due giorni e al primo colloquio effettivamente sostenuto (perché al  primo appuntamento per un colloquio di lavoro la proprietaria, italiana, gli ha dato buca) ha trovato un lavoro in un ristorante tedesco. Contratto regolare, paga non alta ma buona, quanto meno per iniziare e considerando che non parla ancora tedesco.
Io invece, come da progetti, mi sono iscritta a scuola: seguo un corso intensivo di tedesco cinque ore al giorno per cinque giorni la settimana. La scuola è la Vhs la più popolare, economica, amata ed odiata scuola tedesca.
Il corso al quale sono iscritta è di integrazione e la differenza è solo nel costo: pago 120 euro al mese invece che 150 e dopo sei mesi, raggiunto cioè il livello B1 si sostiene l’esame, superato il quale ci verrà restituito la metà di quanto pagato. La possibilità di dedicarmi solo allo studio della lingua, di poter aspettare un po’ per cercare un lavoro mi rende felice.

Sto realizzando quello che non ho mai potuto fare in Italia e cioé stare un periodo senza lavorare per fare qualcosa per me, per investire, per provarci, per migliorarmi.
Nel frattempo mi godo lo stupore di scendere con il tram tutte le mattine ad Alexander Platz, mi godo la funzionalità dei mezzi di trasporto, le nuove amicizie, angoli più o meno conosciuti che giorno dopo giorno diventano familiari e no, non lo avresti detto mai.
Tutti i giorni penso all’amore che ancora vive in Italia: famiglia, amici, mi mancano sempre. Mi manca un pezzo. Ma di certo, sono più felice ora pur senza un pezzo, di prima quando quel pezzo ce l’avevo e non potevo goderne.
Quello che di certo è cambiato è la sensazione che ho, appena sveglia la mattina, di avere la possibilità di fare qualcosa.
Qualcosa per me, qualcosa che mi piace, qualcosa che forse non mi riuscirà ma posso provare. Quello che non potevo più fare in Italia.

domenica 3 novembre 2013

Arrivederci Roma, Berlino chiama. (un'intervista per Italiansinfuga)

http://www.italiansinfuga.com/2013/11/03/arrivederci-roma-berlino-chiama/


Cosa facevate in Italia?

Io: un diploma di Ragioneria mai utilizzato e del quale ancora fatico a capirne le ragioni dell’esistenza.
Una laurea in Psicologia mai conseguita, un lavoro svolto sempre nell’ambito dell’infanzia: da baby sitter ad operatrice di ludoteca, ad operatrice nei centri estivi, poi coordinatrice sempre negli stessi.
Negli ultimi 6 anni operatrice teatrale nelle Scuole d’Infanzia, un lavoro bellissimo e molto faticoso divenuto quasi impossibile a cause delle enormi distanze che c’erano tra una scuola e l’altra a Roma, nella città in cui ho sempre vissuto e lavorato, e di conseguenza l’enorme spesa per la benzina che ultimamente ha toccato prezzi proibitivi e l’assoluta necessità di avere un’automobile per trasportare ogni giorno tantissimo materiale.
Lavoro che ho lasciato con dispiacere per l’enorme fortuna di poter lavorare con i bambini e con un grandissimo sospiro di sollievo pensando a tutto il resto.
Poi c’è mio marito, uno di quei diplomi che non ti penti di aver conseguito e che da subito ti dà lavoro: istituto alberghiero.
Anni di sicuro ed onesto lavoro nelle cucine romane quando tre anni fa un incidente sul lavoro (7 punti ad un dito), la legittima decisione di usufruire del diritto di essere in malattia e la reazione del proprietario del locale che non gradendo questa scelta, dopo settimane di mobbing gli presenta una lettera di licenziamento per “esubero di personale”.
Gli anni che seguirono furono, per lui, una continua ricerca di un posto dignitoso e per me, continui tentativi di sopravvivere a contratti a progetto e ad un senso di profonda frustrazione.
Tentativi che, evidentemente, hanno avuto scarsi risultati.
Perché l’idea di partire e perché Berlino?
Eravamo già stati a Berlino due volte perché il fratello di Andrea ha vissuto lì per un anno e mezzo ed ora è da un anno e mezzo a Brema, rimanendo quindi in Germania.
Affascinati, colpiti, innamorati da questa capitale europea così versatile e diversa da tutto quello che avevamo avuto modo di visitare o vivere fino a quel momento.
E così, quasi per scherzo progetti, idee, pensa se un giorno ci veniamo a vivere davvero… ma gli affetti mi tenevano fermamente ancorata a Roma.
E non solo loro, dopo anni di attivismo politico, senza aver mai militato in un partito ma nonostante questo cercando ogni giorno di capire, combattere, provare a cambiare qualcosa, con le piazze, i movimenti, le contestazioni, l’idea di abbandonare il campo, mi faceva star male.
Ma ormai rimanere in Italia era diventata una sofferenza quotidiana, una lotta quotidiana per la sopravvivenza.
E cosa te ne fai della vicinanza fisica con amici e famiglia quando sei talmente svuotato da non poter dare loro niente di bello?
Abbiamo scelto di provare, abbiamo puntato alla qualità del tempo da trascorrere insieme, piuttosto che alla quantità.
Come state facendo per imparare il Tedesco? Quanto è difficile?
Per ora Andrea non lo sta studiando, lavora in un ristorante in Potsdamer Platz dove tutti parlano anche inglese, se come sembra in inverno il lavoro calerà un po’ ne approfitterà per seguire anche lui un corso.
Io invece seguo un corso intensivo alla Vhs Volkshochschule, la più famosa, conosciuta, popolare ed anche criticata scuola di lingue tedesca.
Il mio corso è strutturato in 5 incontri la settimana, ognuno della durata di quasi 5 ore, una vera e propria scuola che, a mio avviso, può frequentare solo chi non ha un lavoro di molte ore, vista la mole di lavoro che c’è da fare anche a casa.
In 6 mesi si raggiunge il livello di B1 che è il requisito minimo per accedere a qualsiasi posto di lavoro ed anche per iscriversi ad un Ausbildung (un corso di formazione lavorativa) che, probabilmente è quello che vorrò fare dopo.
Con il corso integrativo che sto seguendo io e che al quale possono accedere i cittadini europei, alla fine dei 6 mesi di scuola si sostiene l’esame di livello, superato il quale si riavrà indietro la metà di quanto pagato fino a quel momento e cioè 120 euro al mese, 30 euro in meno rispetto ai 150 al mese che si pagano normalmente.
É difficile? Sì, il tedesco è indiscutibilmente difficile. Ma anche affascinante, ricco, chiaro, per assurdo. Una lingua che difficilmente permette fraintendimenti. Una lingua che non vedo l’ora di poter utilizzare al meglio e che probabilmente necessità di passione per essere conquistata.
Che lavori avete trovato? Quando è stato difficile?
Il nostro piano era trovare subito un lavoro per Andrea, speravamo che come cuoco avesse più possibilità e così è stato.
Con un annuncio messo su Ebay dall’Italia, ha trovato lavoro due giorni dopo il nostro arrivo, lo hanno aspettato, lo hanno voluto, proprio come dovrebbe essere in un mondo giusto.
Ristorante tedesco, contratto regolare. Dopo due anni di tormenti patiti a casa.
Io invece, come da piano, sto dando la priorità allo studio della lingua che, per tutti i lavori che ho sempre svolto e per predisposizione caratteriale, mi è assolutamente indispensabile: non potrei mai pensare di vivere in un posto dove la gente che parla sul bus emette dei borbottii indefiniti.
Per ora arrotondo, ma davvero raramente, con delle pulizie retribuite 12,50 nette l’ora.
Quali sono state le difficoltà emotive dei primi tempi? Come le avete superate?
La prima volta che ho pianto è stato quando mio padre, che insieme a zio ci ha accompagnati in quello che chiamammo il viaggio della speranza, tornò a Roma.
Uno sguardo, una lacrima scorta all’angolo dell’occhio, un occhiale da sole inopportuno indossato solo per difesa, un bacio sulla guancia e via…noi siamo così di famiglia, non ci piacciono i saluti. Ci distruggono anzi.
Non appena si è chiusa la porta mi sono pianta tutte le lacrime che tenevo qui, lacrime di stupore per il passo che davvero avevamo fatto, lacrime di paura per quello che ci stava aspettando, di gioia per avercela fatta.
Lacrime e lacrime.
Ed è stato bello, piangermele tutte.
Ogni giorno è come se mi mancasse una parte ma ogni giorno mi sveglio più felice e serena di quando quella parte era con me.
Si supera pianificando le visite, contando i giorni che mancano al prossimo aereo che ci porterà qui un pezzo di cuore.
Si supera coccolando gli amati cani che sono venuti, naturalmente e non senza difficoltà, con noi.
Si supera scrivendo tanto ed anche tenendo un blog www.berlinochiama.blogspot.it
Primo bilancio del vostro trasferimento?
Assolutamente positivo.
Economicamente parlando stiamo vivendo con un lavoro solo quando fino a giugno, a Roma, sopravvivevamo con due.
Siamo in una città piena di vita, che trasuda storia da ogni centimetro. Un cantiere a cielo aperto, un laboratorio immenso per sperimentare qualsiasi cosa si abbia voglia.
Ci sentiamo gratificati, degni, meritevoli, accolti e compresi.
Abbiamo davanti lo spettro del duro inverno da affrontare ma ci sentiamo assolutamente preparati.
Sono consapevole che Berlino non sia il paradiso, la disoccupazione aumenta, trovare un alloggio è molto difficile.
So anche di persone che ci hanno provato senza farcela così come invece so di persone felicissime e che si sentono molto realizzate ma questo fa parte della vita, immagino.
Che sentimenti provate verso l’Italia?
Sarebbe facile rispondere rancore ma purtroppo non sarebbe neanche così lontano dalla realtà.
Una politica che ho sempre amato verso la quale non riesco più a guardare se non provando dolore.
E non solo nei confronti di chi ha ridotto il paese in quelle condizioni ma anche nei confronti del nuovo che è avanzato per citare un vecchio adagio e che ha ricalcato perfettamente i modelli di quel vecchio che tanto diceva di voler combattere.
Pensare alla politica e alla situazione italiana in generale è sentirsi in un vicolo cielo, è sentirsi soffocare.
É chiedersi, come ho fatto a sopravvivere lì così a lungo?