lunedì 15 dicembre 2014

Vent'anni di ferite.


La prima frase l'ha scritta una mia compagna di corso, Federica, durante un'esercitazione. Poi mi è stata assegnata per inserirla nel contesto di un mio racconto.
Il primo pensiero è stato: "e adesso che ci faccio con tutta questa vita?".
Ecco cosa ci ho fatto. 


L’auricolare blu pende dalla tasca della sua giacca a quadri, io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Gaber si mescola alle voci e ai suoni che la circondano. Sorride di nuovo, che strano accostamento: Gaber a Berlino.”


Chiudi quel diario, smetti di rileggere quelle vecchie parole. Avevi solo 20 anni e non capivi niente:  non capivi le persone, non capivi la musica, né tantomeno le città.
E soprattutto non capivi le ferite, perché Berlino è quello: Berlino è una  citta ed è anche una ferita.  Una ferita che l’ha attraversata e la attraversa ancora da parte a parte, ma tu a vent’anni non lo sapevi.

Le  ferite però  sapevano un po’ di te, ti conoscevano, a loro piacevi. E a te piacevano loro. Seguivi con curiosità la lama che si faceva rossa, trattenevi il fiato durante l’attimo in cui i lembi della pelle diventavano bianchi  per poi d’improvviso ricoprirsi di sangue. E col sangue giungeva anche lo stupore. Perché ogni volta ti sorprendevi di quanto rosso avessi dentro.

Lo facevi solo per lui, era la tua esibizione per un unico spettatore mai pagante, lo facevi per mostrargli tutto di te, anche il rosso denso che ti riempiva. Per mostrargli tutto quello che non gli avresti mai dato.

Volevi solo cavare da quegli occhi neri ed immobili un lampo di una qualsiasi luce. Ma le sue orbite erano scure e quello che contenevano appariva avido e vuoto, così vuoto che ogni volta che ci cadevi dentro ne riemergevi a fatica e lentamente riprendevi piano a respirare. 
Esiste qualcuno che ha dovuto imparare a respirare? Tu sì, di certo.

Ed  ogni volta che il sangue perso era troppo, perdevi anche i sensi e con loro il senso di quello che stavi facendo.  Ma quegli occhi erano l’unico vuoto da cui valeva la pena farsi riempire.

Ed  era allora che il fiato se ne andava lasciando il posto alla paura e con lei anche alla smania stupida di non voler  morire, di rimanere aggrappata a quella vita che ti ostinavi a voler scacciare via lontano da te.

Perché avevi solo vent’anni e non sapevi come vivere e così le ore, i giorni, i mesi te li lasciavi scivolare addosso, come l’acqua sotto la doccia, come delle mani nuove  ed appena conosciute lungo la schiena.

Hai chiuso quel diario? Non ancora? Fallo, per favore. Ricordare la te di tanti anni fa, quella che si sentiva libera vagando senza metà per la città,  che costeggiava il muro e lo faceva sfiorandolo con le dita come si fa con una ferita, provando ad immaginare il momento esatto in cui è stata inferta, la te che viaggiava sui pullman di notte dispiaciuta dal non riuscire a provare paura. Ricordarla, non ti aiuterà a sopravvivere a questa notte.

Stanotte sono tornati i fantasmi e il tuo spettatore ha acquistato un altro biglietto, forse l’ultimo
“Sono a Berlino, vediamoci”, ti ha scritto.

Ma tu lo sai che dell’altra vita sono rimasti solo piccoli e patetici segni orizzontali sugli avambracci e ci potresti giurare, il vuoto nero dei suoi occhi. 

Chiudi quel diario, perché il resto, tutto quello che i tuoi vent’anni riuscivano a contenere, non esiste più.
E’ un fantasma quello che torna da te sicuro di trovarti immutata ed immobile, pretendendo, dopo  tutto questo tempo, di riempirti ancora di vuoto. Come è possibile, se tu cambi ogni ora?

Chiudi gli occhi, trattieni il respiro, aspetta il bianco, sorridi.
Il tuo sangue ha cambiato colore, lo avresti mai detto?



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