venerdì 27 novembre 2015

Occhi gialli in un mondo finito





Sono l'ultima abitante di un mondo dopo il mondo. 
I miei occhi intossicati e gialli planano lievi sulle rovine di ciò che per anni ho provato a distruggere, senza accorgermi che nulla era mai stato integro.
Osservo dall'alto i percorsi che via terra non sarei mai riuscita a trovare. Mi appaiono nitidi.
Alla mia destra il mare è ghiaccio che non si lascia avvicinare, non mi arrendo. Provo ad entrare con la punta del piede e la risposta è una lama affilata pronta a tranciarmi di netto le dita.
Ognuno cammina come può, penso proseguendo la mia goffa passeggiata ai confini della mia esistenza.
Mi sdraio e lascio che a massaggiarmi il corpo siano solo le vibrazioni della terra. Ricordo quelle antiche, i bassi di una musica che non è più parte del mondo. Mi arriva l’eco di esplosioni in lontananza, tutto trema e non conosco la paura.
Mi sdoppio, me ne vado eppure resto. Ed è lì dove sono che mi raggiungi in silenzio. Ancora una volta, quella che ha un nome che conosco e si chiama Ultima.
Mi volto su un fianco, poggio la guancia sulla sabbia e sei lì, ti entro in ogni poro della pelle: dammi una fine, una qualsiasi ma non mescolarmi a nessun’altra moneta.

Io e te, peso finalmente distribuito in orizzontale, esseri enormi costretti da sempre su gambe minuscole e deboli. Goffi, impacciati, impossibilitati. Chiudo gli occhi e li riapro, sei scomparso.
È il mio modo di restituirti libertà, è con un battito di ciglia che ti libero da me, amen.


La realtà è una pianta che nessuno bagnerà più, che sopravviverà a stento nutrita da occasionali ed acide piogge. Vorrei alzarmi ma conosco a memoria la fatica che accompagnerebbe quel primo ed ultimo gesto, quindi rimango qui, calamitata a terra durante una calamità, riderei, se solo mi ricordassi di avere una bocca.

martedì 13 ottobre 2015

Mattoni e Caffè.

Una sedia e un pc sulle gambe.
Vedo le macchine scorrere lungo la striscia d'acciaio che circonda il nostro bancone.
Quello che a breve verrà ricoperto da legno e pagine e che solo chiudendo gli occhi e domandando alla nostra mente un notevole sforzo, riusciremo a ricordare com'è ora. 
Ora che è fatto di nulla, che è un ibrido, come le mura che contengono questi nostri giorni fatti di lavoro, tisane, parole, letture, piani, pianti, delusioni, rabbia, smania, gioia.

Una sedia, un pc sulle gambe e la spazzatura che mi osserva, tanta: calcinacci e buste di plastica, bottiglie e bidoni.
Tra due giorni la porteranno via, dicono.
Tra due giorni si aprirà la danza che ci condurrà alla fine della polvere, della calce e dei muri da abbattere.

Ed io sono qui:  una sedia, un pc sulle gambe, la spazzatura che mi osserva e uno scialle rosso che mi scalda.
Davanti a me una vetrina che tra due settimane verrà buttata giù per lasciar spazio a quella nuova, quella che qualcuno sta già costruendo e che ora giace in una falegnameria, credo polacca.

Penso ai sogni che ci univano, quando noi non eravamo ancora nemmeno pensieri.

Lo stesso sogno che in forme e in momenti diversi piantava il suo seme in tre menti lontane: Roma, Milano, Bruxelles, Berlino. Dove? Non lo so.
Un sogno che un giorno si è svegliato e ci ha guardati dritti in faccia, costringendoci a domandarci: chi sei?

Alle mie spalle il resto di questo posto che inizio ormai a conoscere bene: le pareti che stanno cambiando colore, il cicalino della caldaia, le sedie e i tavoli presi durante un trip in un mercato delle pulci di Lipsia, dove tutto mi sembrava gigante o forse ero solo io ad essere minuscola, stretta in abiti neri che puzzavano di fumo e di ore mai dormite.

Alle mie spalle solo l'idea, bellissima, della forma che questo posto prenderà.

domenica 27 settembre 2015

La chiave



[era marzo, ero io]

Che me ne faccio io di questa chiave?
È evidente che non la userò mai. Tu sei una matrioska ed io non ho nessuna intenzione di arrivare fino a quella bambolina minuscola, l’ultima, per poi scoprire che non mi basterebbe e che vorrei aprire pure lei, anche se dentro non c’è niente e lo sanno tutti, pure i bambini lo sanno che quella non si apre ma si guarda soltanto. Probabilmente  poi vorrei spaccarla.
Quindi, torniamo indietro, niente matrioska, non ti aprirò.
Oppure mi sbaglio, non sei una matrioska, sei solo sabbie mobili che salterebbero fuori all’improvviso come un’attraente massa informe e che venendo verso di me, senza darmi il tempo di scegliere, mi avvolgerebbero entrando in ogni poro della mia pelle, fino a non avere neanche un centrimetro di corpo libero, né un pezzo di gola in grado di succhiare dentro l’aria per rimanere di qua.
Diverrei cianotica e strabuzzando gli occhi maledirei l’aver ceduto alla possibilità di te e il mio ultimo pensiero prima di andare,sarebbe il tuo involucro, saresti te prima di tutto questo.
Oppure no, mi sbaglio ancora.  Se usassi questa chiave per aprirti, verrei risucchiata in un vortice: sei un buco spaziotemporale, posso intuirlo guardando in quelle cavità che ti ostini a chiamare occhi. E se ci finissi dentro come Alice nel pozzo, dal dolore mangerei tutto il fungo cercando di anestetizzarmi e diverrei  minuscola e gigante al tempo stesso e sarei ovunque e in nessun luogo e poi imploderei.
Rimanendo solo briciole beccate da un tenero uccellino senza testa.
Quindi, tutto quello che dovrei fare è ingoiare la chiave.

Ma tutto quello che invece so è che non ho abbastanza acqua a disposizione per mandarla già senza soffocare. Quindi?

lunedì 27 aprile 2015

Come sassi nel mare.

San Domino, Isole Tremiti
Mi ricordo ancora il giorno in cui guardandomi negli occhi Tina mi disse: “Prendi il mio zaino, è pieno di sassi brutti e pesanti, portalo al mare e una volta lì buttali in acqua.”
Forse anche lei sapeva che non mi spaventa farmi carico di persone e cose, che le prendo con me, seppur coi miei tempi e le mie pause e le mie paure.

È passata una settimana da quando sono arrivata su quest’isola, il viaggio è stato faticoso, il mare molto mosso ma ora sono qui ed attendo paziente che il vento carico di microscopici granelli di sale levighi i sassi e li renda lisci. 

Forse dovrò aspettare settimane, forse mesi ma non ho fretta, le ho promesso che l’avrei liberata da quel peso e questa promessa fa ormai parte di me come tutte quelle cose che ci sono da prima ancora che il mio sguardo sul mondo si facesse consapevole.

Prima di buttarli in mare però voglio renderli belli, lisci, tondi, voglio togliere il brutto che le ha fatto desiderare di liberarsene per sempre perché io ho bisogno del bello e lo cerco in tutto quello su cui poggio questi occhi stanchi e queste palpebre gonfie.


La torre di sassi che ho creato è alta e si staglia contro il cielo azzurro e bianco, seppur invisibile il vento sta facendo il suo lavoro e i sassi diverranno lisci e tondi come li desidero io e come credo vorrebbe vederli lei e lo saranno per qualche istante e brilleranno di splendente bellezza prima di sprofondare per sempre nell’abisso più nero.

domenica 26 aprile 2015

Una notte a caso.

Restiamo io e lei, passeggere di una Ubahn piena di corpi, i soliti che non sai mai se vanno o vengono ma che di certo come noi cercano una strada, una qualsiasi.
Un momento di silenzio dopo le risate e i saluti con chi prende un'altra direzione, quella giusta.
Io scrivo sullo smartphone, è il mio vezzo, quello di aggiungere un saluto virtuale a quello fisico, spesso troppo veloce.

Lei interrompe il mio digitare silenzioso 

“io ho sognato di te e di quello che ti è successo, prima che ce lo leggessi in aula”

e nella mia mente i puntini si uniscono e l' immagine che viene fuori è chiara ed è quella di un’altra vita in cui queste persone, questi quasi sconosciuti che ora hanno preso le sembianze di volti più o meno familiari, volti e corpi che riempiono le mie giornate, spesso le mie notti, a volte anche le mie albe, queste persone erano già qui, da qualche parte dentro i miei giorni.

Penso alla magia che crea lo scrivere ed il leggere insieme, il supporci, l'intuirci, il provare a conoscerci e forse, alla fine, riuscire anche a capirci senza però mai pretenderci.

Alexanderplatz, le nostre strade per stanotte si dividono: le indico la via, io che sono da sempre quella da indirizzare e ci abbracciamo. Ed è forte. 
Ci abbracciamo come amiche, come sorelle, come anime sconosciute eppure affini.

Torno a pensare, ormai sola, alla magia che mi fa stare in un’ora imprecisata della notte, notte che non è più scandita dallo smartphone che finalmente riposa nella borsa, a scrivere su un blocco bianco con una penna viola in attesa di un tram che mi porterà a casa. Fa caldo e i 10 minuti di attesa non mi sembrano tragici, se posso riempirli di parole.


La Torre della Tv mi osserva e mi sembra approvare sorridente, io la ringrazio per tutto questo. Per queste vie e queste vite che si incrociano sotto al suo sguardo metallico e colorato.

giovedì 23 aprile 2015

Duemilaquattrocentosecondi



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E’ ormai notte fonda e tutto è solo un ricordo, ricordo che  però non arriverà mai ad essere lontano, che anzi si fonderà con altri giorni ed altre ore pur rimanendo per sempre altro, per sua natura terribile.
Le ore hanno fatto da spartiacque e adesso non rimane che compilare qualche modulo prima di cercare conforto nel buio.
Perché non c’è altro che si possa fare. Non più.

Soltanto una manciata di ore prima Luca  era stordito dal profumo del Ponentino. Gliene avevano parlato gli occhi pieni di pagliuzze dorate di una ragazza romana, che quella sera riflettevano il fiume di una città che non era la sua, quella sera , forse l’unica, in cui lui non sapeva ancora che l’avrebbe amata fortemente.

Gli occhi di Mia raccontavano le contraddizioni e gli odori di una Roma che non l’avrebbe lasciata mai in pace, che sarebbe rimasta sempre tra la sua lingua e i suoi denti, nascosta dietro ad ogni parola.

Ma fino a quella mattina di maggio lui non era riuscito a capire davvero il senso di quella città.  
E invece aveva voglia di capirla, a fondo,  perché farlo avrebbe significato entrare in lei ed era l’unica cosa che desiderava davvero.

Così, l’invito al matrimonio di un amico d’infanzia di Mia, gli sembrò l’occasione perfetta per conoscere quelle due strane e nuove creature: una donna e la città che l’aveva vista crescere.

Porta anche Lolli

disse lei istintivamente mentre prendevano un caffè pianificando il viaggio e in quel momento a Luca non sembrò così folle l’idea di affrontare 600 km con una donna che conosceva da poco tempo, pur essendone già dipendente e con un bambino di 3 anni che invece dipendente lo era da lui, dal suo papà, nonostante le gambette corte ed incerte lo portassero spesso lontano, ad esplorare con sguardo curioso quel mondo troppo grande per i suoi occhi piccoli.

Giunti nel casale dove di lì a poco si sarebbe svolta la cerimonia i tre si prepararono: lui perse parecchio tempo nel provare ad infilare le scarpe eleganti al piccolo, tanto che  alla fine optò per le solite Kickers ormai sformate e lei per caricare di eyeliner nero i suoi occhi, consapevole però che non era c’era bisogno di quello perché lui ci si perdesse dentro.
E così ebbe inizio la serata tra cibo, vino, musica e chiacchere.

Luca ascoltava rapito i racconti di Mia che lo inondava di ricordi descrivendogli ogni angolo di quella città che osservavano dall’alto della terrazza: lavori, primi appuntamenti, strani incontri, la sua famiglia, il suo gatto, tutto gli appariva familiare.
Le parole di lei lo trasportavano placide sul fiume di quella vita in cui lui non era nemmeno pensiero.

Si distraeva solo per controllare Lolli che curioso si aggirava tra i tavoli, mangiava servendosi con le mani sporche di terra direttamente dal buffet e beveva grandi sorsate di succo di frutta nonostante la mamma e cioè la sua ex compagna, si fosse raccomandata di non fargliene bere troppo se non voleva accompagnarlo  in bagno ogni 5 minuti.

Ma Mia era così interessante e la sua scollatura così accogliente che Luca facendo con la testa ad ogni sua frase, si immaginava nell’atto di appoggiare l’orecchio al suo seno, per sentire il suo respiro innalzarsi,  fino ad arrivare con le labbra lì dove lei avrebbe avuto un sussulto.

Papà, posso andare giocare coi pagliacci?!”

Luca si voltò schiarendosi  la vista che il Pinot Grigio gli aveva reso annebbiata e in pochi secondi mise  a fuoco due clown: una ragazza alta e magra e un ragazzo di media altezza.
Il trucco era perfetto e così l’abbigliamento  e come da tradizione i due non parlavano ma comunicavano a gesti e grandi sorrisi.
Solo lei, in via del tutto eccezionale infranse la regola del clown ed usò la voce per chiedere ai genitori se i bambini potevano  seguirli per giocare insieme, una sola breve frase e poi riprese quel linguaggio sfarzosamente silenzioso fatto di passi lunghissimi e gesti ampi.

Così Lolli insieme ad altri 5, 6 bambini seguì i due e Luca riuscì a vedere il punto esatto in cui si sistemarono: i bimbi in cerchio e i due clown davanti a loro, pronti ad intrattenerli con palloncini  che di lì poco avrebbero preso la forma di cani e spade e giochi che li avrebbero fatti urlare di gioia e saltare dall’emozione.

Nell’andare via rumorosamente formando uno squinternato trenino che gli ricordò i Bimbi Sperduti di Peter Pan, Luca notò che il clown maschio si voltò e gli rivolse uno sguardo leggermente più lungo del normale, lui lo sostenne  assumendo un’espressione seria ed incuriosita e l’altro distese la bocca lasciando scoperti dei denti giallissimi.
Una specie di ghigno traverstito da sorriso che lo fece rabbrividire per un attimo.

Si avvicinò la sposa, una specie di fata degli elfi, scalza con morbidi boccoli castani lungo le spalle nude

“i ragazzi sono bravissimi, vedrai il tuo bambino si divertirà moltissimo. Lei ha già lavorato al matrimonio di mia cugina. Avete assaggiato la crema fritta? È favolosa. Divertitevi ragazzi, a dopo

disse tutto d’un fiato, da copione, come avrebbe detto a prescindere dall’interlocutore, come quando in un giorno sognato così a lungo ci si ritrovava a dover parlare con tutti e cento gli invitati, con o senza voglia.

Luca apprezzò il gesto ed anzi si sentì rassicurato dalle referenze dei due ragazzi, Lolli era piccolo e scapestrato e lui sperava di non dover litigare con nessun genitore, non dopo il fine settimana scorso quando dovette staccare il figlio dalla guancia di un compagno di giochi colpevole di avergli preso una macchinina.

Mia si era spostata a parlare con un tipo alto e ben piazzato e Luca paziente ne aspettò per un po’ il ritorno continuando a bere e  facendo fare ai suoi occhi la spola tra lei e il gruppetto di bambini urlanti e pensando a quale potesse essere il motivo che spingeva degli adulti a doversi vestire da pagliacci per far divertire dei piccoli indemoniati e  poi di nuovo tornava a Mia che con una mano teneva il bicchiere e con l’altra giocherellava con la collana e rideva e si spostava col corpo in avanti e poi rideva ancora mettendosi la mano davanti agli occhi e di nuovo parlava fitto fitto con il tipo alto.

Andiamo a fare un giro nel parco?” le chiese, avvicinandosi e lanciando uno sguardo che non lasciava speranze al  coraggioso intruso.
Lei sorrise come a dire “sapevo lo avresti fatto” presentò i due, si congedò e prendendolo sottobraccio si allontanò con lui verso il parco.

Passarono vicino ai bambini e Luca disse a Lolli di non muoversi e rimanere sempre con i pagliacci, lui sembrò averlo capito ma lo spettacolino in quel momento era troppo interessante per rispondergli.

Luca e Mia si baciarono, come da copione, nascosti nel folto di un parco che non sembrava possibile essere al centro di quella città nevrotica eppure seduttiva.
Si baciarono ancora, si misero le mani tra i capelli e sotto i vestiti, con una frenesia che nessuno di loro provava  da tempo e in quel modo che è quasi mangiarsi avvicinarono i loro corpi fino a sentirli avvampare.
Nessuna sorpresa, sapevano entrambi che sarebbe successo, aspettavano solo l’occasione giusta.
Poi passò quel tempo che non si sa mai quanto è, che avresti detto dieci minuti ed invece è mezzora oppure un’ora.

Un’ora e mezza!
Cristo, Lolli!

Luca e Mia tornarono indietro correndo e nello scoprire che c’erano ancora quasi tutti gli invitati e che la festa era ben lungi dal terminare, tirarono subito un sospiro di sollievo.
Ma il sollievo durò poco: si diressero velocemente verso i due clown circondati dal gruppetto di bambini che però non era più un gruppetto. Erano solo tre. E tra quei tre, Lolli non c’era.

Una morsa di terrore strinse lo stomaco di Luca ma con calma chiese alla ragazza
dov’è Lolli?

Lei, che non avesse avuto la faccia truccata di bianco, sarebbe impallidita, si guardò velocemente intorno e disse
Ehm, non lo so. Ha detto che doveva fare pipì e che poi sarebbe tornato da lei.

L’uomo, d’istinto cercò con lo sguardo il clown maschio che era di spalle intento a sistemare nelle borse colorate giochi ed attezzi , questo si voltò e di nuovo gli rivolse quel ghigno che ormai non aveva più dubbi, era malefico.

Ma l’avete mandato da solo? Ma siete pazzi? E’ piccolo.
Ma noi non ci siamo presi mai la responsabilità del bambino, i genitori stanno sempre qui intorno, passano a guardare, lei è sparito! Ho pensato che il piccolo l’avesse trovata.

Nel centro esatto del triangolo che vergogna, terrore e rabbia formavano, Luca si mise a cercare il suo bambino ovunque, col cuore in gola, le mani sudate e la mente invasa da immagini catastrofiche e cruente, i film horror che avevano accompagnato tante sue serate gli presentavano ora il conto tornando sotto forma di terribili fantasie.

Tornò al tavolo del buffet, guardò vicino al palco sul quale suonava ancora il gruppo, corse alla terrazza e premendo i pugni sopra il marmo ormai freddo del cornicione, istintivamente guardò giù.
Nulla tra le siepi, nulla sulla strada. 
Luca pianse per il sollievo di non aver trovato il corpo del suo bambino schiantato al suolo e per la disperazione di non sapere dove cercarlo. Gli tornò in mente il ghigno del clown e fu lì che pensò al peggio, che si preparò a veder morire una parte di sè. Si morse le labbra fino al sapore ferroso del sangue e le odiò e con loro odiò il mondo in cui entrando in quelle di Mia gli fecero perdere la cognizione del tempo e l’unica cosa che davvero contasse nella sua vita, l’unica cosa buona che aveva fatto: quel bambino buono e curioso dagli occhi blu.

Prese il cellulare e chiamò la polizia pronto a denunciare la scomparsa, erano passati quaranta minuti ed avevano guardato ovunque, chiesto a tutti, pensato ad ogni eventualità.

Il brusio che si levò all’improvviso spezzando in due quel silenzio di morte, lo fece voltare lentamente e tra le lacrime intravide due figure: un adulto, forse una donna, che teneva per mano un bambino.
Fu lì che la mente si fece inganno e si divise in due metà esatte: una parte era convinto di averlo ritrovato e l’altra invece voleva credere che si trattasse di un altro bambino e non certo di Lolli.
Perché Lolli non c’era più, era scomparso e con lui tutti i bambini della terra, insieme a i fiori e  ai fiumi.

La  donna si fece più alta, lo sovrastò con la sua figura e lui, non avendo il coraggio di guardarle il braccio e seguirne la linea fino ad arrivare a quel bambino che di certo non era il suo, la fissò in un punto imprecisato in mezzo al viso.
Lei aprì la bocca dicendogli
“L’ho trovato che dormiva in una delle scatole in cui teniamo i giochi.” 
Non si era mai mosso di lì, si era addormentato.

Nel frattempo arrivò la polizia
è lei che ha denunciato la scomparsa di un bambino? Ci sono dei moduli da compilare
E di seguito, come una buffa ed inaspettata risposta, arrivò la voce del piccolo
Papà, andiamo a casa?
Luca ritrovò il battito perso del cuore e la saliva nella bocca, lo stomaco si distese ed abbracciando Lolli lasciò andare incubi o paure.

O almeno, fu ciò che in quella profumata e surreale serata romana credette di fare, perché in realtà quell’assenza, quel buco nero lungo duemilaquattrocento secondi, sarebbe tornata a trovarlo puntuale, ogni notte della sua vita.

lunedì 13 aprile 2015

Che seme vuoi far germogliare?

La terra è bagnata ed affondarci le mani è un piacere atavico. L’odore che arriva alle mie narici è familiare e confortante, odore di un qualcosa che c’è da prima di noi, che rimarrà dopo, qualcosa nel quale finiremo tutti. 
Oppure no, oppure sceglieremo di essere cenere nel vento o ancora, qualcun altro sceglierà per noi. 

Ma la terra è una sorella, come la notte. Supporta i nostri passi incerti, ci rende stabili o ci fa tentennare, diventa sasso per farci inciampare, giaciglio per dormire.
Ed è pronta ad accogliere, pronta a cullare i nostri semi, a ricoprirli nello stesso modo in cui si mette una coperta sul corpo di una persona che si ama e che si è addormentata stremata sul divano.
Ricopre, protegge, dà il tempo, cura, questo fa la terra.

Ed io prendo i semi che ho trovato un giorno, per un caso che non è un caso e che da allora custodisco in una scatolina, li tengo tra le dita, faccio attenzione a non farmeli cadere dalle mani, non è il momento di essere maldestra.
Loro sono ciò che non vorrei mai perdere ed io vorrei lanciarli in aria e vedere dove cadono, dove rotolano, dove li porterebbe il vento se lo lasciassi fare, questo vorrei ma una parte di me, quella che ancora conosce la parola razionalità, sa che li infilerà uno per uno in punti diversi del terreno, assicurandosi che siano ben coperti, pronti ad attecchire al suolo.
Consapevole anche che forse non ce n’è bisogno, che se deve attecchire, attecchisce, se deve germogliare, germoglia.
Consapevole che alcune cose accadono da sole, a volte basta una pioggia improvvisa.

Prendo i tre semi, li guardo con negli occhi tutta la paura che ho di salutarli ma sento che è il momento. Confido nel sole e nella pioggia, confido nelle mie mani.
Li infilo con cura, a venti centimetri uno dall’altro. Chiudo gli occhi e penso a come sarà quando li rivedrò nella loro nuova forma, penso al lavoro che ci vorrà per innaffiarli, potarli, curarli, penso alle mani sporche e talvolta doloranti.


Penso a quando il mio giardino sarà al massimo del suo splendore e a quando Fantasia, Estro e Creatività brilleranno davanti al mio sguardo innamorato.

giovedì 9 aprile 2015

Aspettative al tramonto

Lei è la solita folle e sapevo sarebbe arrivata con venti minuti di sonno disegnati sulle palpebre. Mi ha sempre strappato un sorriso, lei: così libera, fuori dagli schemi, mentre si mangia la vita in silenzio, con aria sorniona e senza darlo troppo a vedere.
Poggia la borsa a terra e in questo gesto che le ho visto fare mille volte, mi ha sempre ricordato me e la libertà a cui, né io né lei, abbiamo mai rinunciato. 
Saluta gli altri con un cenno del capo, qualcuno penserà che non era il caso di presentarsi con ancora un alone di vodka intorno alla bocca, ma lei se ne fregherà ed io era esattamente così che volevo vederla. 
Prende un Ibuprofene dal fondo di una borsa incasinata, soffia via il tabacco e la manda giù senza acqua né una smorfia.
"È da 600, scema, vacci piano!"
questo vorrei dirle ma so che qualcun altro lo farà al posto mio.

Quella testa biondo cenere che sbuca dalla macchina, anche su di lei avrei scommesso, si appoggia al marito con tutto il peso di un dolore inaspettato e sconcertante. Avevamo altri progetti noi e questo no, nel suo business plan non lo aveva inserito.

Arriva un ragazzo magro,  non capisco...ah sì, me lo ricordo: occhi azzurri che non lasciano venir fuori quasi niente. Lui non mi sarei mai aspettata di vederlo. Sembra triste, forse sta empatizzando col dolore di qualcun altro, succede.
Del resto, anche se per vie molto traverse siamo stati in qualche modo uniti no?

Si salutano, formano un capannello, parlottano, qualcuno prova a sdrammatizzare.
Dai, così mi piacete, so che potete  farcela, coraggio!

E lui? No, lui no. Non ho intenzione di guardare in faccia i suoi pensieri perché li conosco già, non ne ho bisogno. Decido di andare oltre, lo faccio.

Chiacchere a bassa voce, musica, silenzi, qualche frase scontata, sconcerto e un profondo e scurissimo dolore. Che dire?

Al mio funerale non potevo chiedere di più.

lunedì 23 marzo 2015

Dovrei ingoiare la chiave che ti apre.

Oggi per un'ora ho avuto una chiave in mano, con la quale avrei potuto aprire una persona qualsiasi.
E io ovviamente ho immaginato sabbie mobili, vortici e pozzi profondi come occhi. E non l'ho usata, anzi mi sono ripromessa di inghiottirla, consapevole che forse non lo farò mai.

"E se ci finissi dentro come Alice nel pozzo, dal dolore mangerei tutto il fungo cercando di anestetizzarmi e diverrei minuscola e gigante al tempo stesso e sarei ovunque e in nessun luogo e poi imploderei, rimanendo solo briciole beccate da un tenero uccellino senza testa."

E quindi mi sono chiesta, possibile che nessuno si sia mai domandato come sarebbe andata se Alice avesse ingoiato tutto il fungo?

domenica 22 marzo 2015

Lamiavitain20minuti.

Erano due ragazzini che facevano l’amore in macchina, i miei genitori.
Lui operaio, lei commessa in un negozio di libri: 22 e 21 anni.
Sei bassetta perché t’abbiamo fatta nella 500” si diverte a ripetere ancora oggi mio padre in una delle sue mille battute tutte uguali che  mi strappano sempre un sorriso, seppur a volte esasperato.

Ma  a pensarci bene ne ho avuta un’altra di mamma, mia nonna Adriana, bellissima e formosa romana di Garbatella, con le labbra carnose, la risposta pronta e una profonda depressione che nessuno mai capì. E che mi amò e coccolò per tutto il tempo che ebbe.
Si racconta di me che a due anni piangevo di commozione guardando Heidi, che chiaccheravo troppo e che stavo ore nella libreria dove mia madre lavorava, seduta a terra a leggere libri che se mi concentro  sento ancora l’odore di carta e del legno dei vecchi scaffali: tutto torna.

E la scuola, dove non ho mai brillato per impegno ma dove sono sempre stata involontariamente leader. E sì che a me i leader mi sono sempre stati sul cazzo.

La comitiva, la primavera, il primo bacio dato in chiesa, il rossetto messo per le scale perché mio padre “se ti becco per strada col rossetto ti lavo la faccia alla fontanella”.

E le amiche che ho fatto soffrire e quelle che hanno fatto soffrire me e poi, in un pomeriggio d’inverno ecco che arriva lui.
Introverso, timido e sbruffone col CIAO modificato e un appuntamento al quale è stato in grado di arrivare con 25 ore di ritardo, sorridendomi ed infilandosi nei miei giorni,e non solo in quelli, per i 6 anni che avevamo davanti.
Le fughe nella casa al mare, il fare l’amore per la prima volta davanti al camino tra i cuscini colorati, il prenderci gusto, il non fermarsi più.
L’essere l’uno per l’altra fondamento e al tempo stesso distruzione degli adulti che saremmo divenuti un giorno. Lui, che ancora oggi è una delle persone più folli ed amorevoli che ho nella vita, che solo adesso, dopo 15 anni, posso frequentare senza sentirmi inquieta.

Poi l’improvvisa morte di mia nonna e con lei di una parte di me ma anche l’affermarsi di una realtà: io non ricoprirò mai il ruolo che la società proverà ad affibbiarmi, io non rinuncerò a nessun battito del cuore in nome di nessuna coerenza o stabilità. Io non sarò prigioniera dei miei giorni, nonna. So che se avessi potuto, me lo avresti fatto promettere.

Poi il primo amore che finisce e il ritrovarmi a 23 anni convinta di essere ad un passo dalla morte ed invece, posso dirlo? A 23 anni non si è proprio a un passo da nulla, si è solo una lavagna bianca e c’è soltanto da pregare che qualcuno ci scriva sopra nel modo migliore.

E via, si vive.
Si esce, si balla, si fuma, ci si droga, si va in coma etilico, ci si perde, si ascolta la musica, si viaggia, si scopa, si soffre, quanto si soffre, si scrive, si studia, non ci si riesce molto bene ma si legge (tanto), si gode, ci si trattiene (poco), si pensa (non sempre), ci si innamora più volte e c’è sempre un abisso profondo da cui riemergere però santo dio, che bello è stato affondarci, treni e lacrime sui binari.
Poi si parte per la Spagna e si torna. Poi si parte per un’isola e si torna.

Poi si incontra una persona diversa dalle solite, una persona calma, realizzata e serena e ci si dice “perché no?” forse vale la pena fermarsi con lui, forse l’amore non è sofferenza ma comprensione, condivisione, serenità. Forse.

Mio padre si ammala. Ah sì? E io mi sposo. No, non c’è un legame, non cercatelo. Andrò così: al mio matrimonio tenni le scarpe mezzora e mi vestii di verde.

E poi c’è la vita a Roma che diventa una camera a gas ma c’è anche una macchina e un “sì, andiamo” e poi c’è Berlino.

Poi c’è un bambino, un maschietto che arriva e se ne riva. O prova ad arrivare, di sicuro se ne va, una breve visita che diventa la fine dei miei giorni e subito dopo la possibilità di nascere nuovamente.
Perché nonna, non me la scordo la promessa che non ho fatto in tempo a farti: nessun ruolo, nessuna categoria.
Quindi ora la mia vita è il contenuto caotico di una borsa in cui ci sono cose molto preziose e qualche cosa inutile, l’ho rovesciato sul tavolo e lo sto osservando in attesa di decidere cosa farne.

Di lei e di me.

mercoledì 18 marzo 2015

"Il mondo è un posto bizzarro." (cit.)

"Te lo chiedi mai?"

Le domanda spegnendo la sigaretta sulla banchina della metro ed aggiunge, senza darle neanche il tempo di rispondere

"A dove va tutta questa gente."

"No, dovrei?"

"No, non dico che dovresti ma potresti. Io per esempio me lo chiedo spesso e quando mi sveglio presto per andare a lavoro ed incontro gente sfatta che torna dalle serate, cerco di immaginarmi cosa hanno vissuto, dove sono stati, con chi, a fare cosa, se si sono mai seduti su un divano di pelle a vedere il fiume che scorre e poi di colpo rallenta.
E poi, cosa avranno fatto una volta arrivati a casa? Dormire non è così scontato. Oppure al contrario, quando sono io a rincasare all'alba ed incontro questa gente che diligente va a lavoro, spero non si senta l'odore di alcol che mi porto dietro.Oppure il pomeriggio, guardando i bambini che escono da scuola mi chiedo se sono felici di tornare a casa, se poi faranno merenda come facevo io da piccolo o se avrabbero preferito rimanere a scuola.E quella ragazza così assorta, forse vuole solo rientrare a casa per vedere sette episodi di fila della serie tv che al momento le tiene le notti impegnate. E quale sarà? L'avrò mai vista?E poi, chi ride guardando lo smartphone? Io vorrei conoscere chi si è meritato quella risata. E chi legge un libro? Sarà soddisfatto di averlo tra le mani o è pentito di averlo iniziato ma ha difficoltà a lasciare la lettura a metà? Non sempre i loro volti lasciano trasparire qualcosa.E gli altri, i protagonisti delle mie quotidiane fantasie, cosa penseranno di me? Mi vedranno o per loro sarò solo un movimento sullo sfondo?Eh? Ci pensi mai?"

Arriva la metro, lei fa un passo verso la banchina. 

"Non me ne frega un cazzo" risponde. 

_____


Questo è stato l'esercizio di sabato scorso del corso de Le Balene, Mattia ci ha dato un titolo come input e basta.
Poi il giorno dopo ho aperto un foglio bianco, ho riscritto lo stesso titolo ed ho scritto un'altra cosa. Che nessuno leggerà mai. 

domenica 8 marzo 2015

Restiamo così.


Richiudo la porta, se mi annusassi le mani ora sentirei l’odore di ottone e di mille palmi che hanno toccato, prima di me, questa maniglia. Invece non ho il tempo di farlo, né di pensarci perché giunge dritto nella mia testa, un profumo di incenso e della cera ormai dura delle candele che una volta sono state profumate.
Faccio un passo e il gatto scappa appena in tempo, non lo calpesto e ne sono sollevata, mi sarebbe dispiaciuto sentire il verso sorpreso e dolente che avrebbe emesso.
Poggio la mia mano sull’interruttore e mi fermo a riflettere sui germi. Avevo una zia fissata con gli interruttori, li disinfettava almeno una volta al giorno, diceva che erano la cosa che più si sporcava in casa.
Sto per premerlo, sfidando i microbi e pensando che no, non ho mai disinfettato un interruttore in vita mia, quando sento una mano calda posarsi sulla mia.

Non lo fare” mi dice “Restiamo così

Quello che mi arriva è cuoio e tabacco, intreccio, senza capire ancora quello che sta succedendo, le dita tra le sue e rivolgo il viso dove dovrebbe essere lui. 
I centimentri che ci dividono non sono molti, posso sentirlo dal calore del suo alito che mi scalda il viso.

Ma che ci fai qui? Vuoi farmi morire?!
Stamattina quando sei uscita per andare  a lavoro non ho preso il treno ed ho deciso di rimanere qui ad aspettarti.
Al buio?” gli domando divertita.

Immagino, in quel nero che ci avvolge e divide, la sua smorfia, quella che dovrebbe essere un sorriso.

Da quando il sole è tramontato ho deciso di non accendere la luce. Ho rinunciato a leggere ma ho ascoltato la musica.”
Tu non sei normale.”
Mangiamo?” mi chiede lui.

Senza aspettare la mia risposta mi prende per mano e mi precede, dovrei essere io a guidarlo  ma per questa volta va bene così.
Percorro quei metri sfiorando la parete e cercando di mantenere l’equilibrio, almeno col corpo.
Seguo il bordo della stampa di Feltrinelli, quella che Francesco incorniciò di rosso e mi regalò per un Natale di secoli fa. La mia mente sale su un treno, percorre 600 km, scende alla stazione gli va incontro, lo abbraccia col cuore spezzato, poi riprende il treno e torna qui.
Stacco la mano dalla cornice ed ecco lo stipite, siamo arrivati. Mi avvolge un odore di pane e formaggio, salame, frutta. È tutto sul tavolo, posso intuirlo.
Lo immagino mentre apparecchia la tavola e organizza per me questa strana cena oscura, non riesco a stupirmi, del resto è da lui.
Sistema la sedia e mi fa sedere.

Sembri esperto” gli dico “mangi spesso al buio?
No e spero di non infilarti un’oliva nel naso” mi risponde.
Ridiamo.

E poi ci avviciniamo un po’ come se avessimo ancora bisogno di una scusa.
Alzo la mano e trovo la mensola e sulla mensola una candela che non potrò accendere ma l’annuso, perché è alla vaniglia e la vaniglia è il mio profumo preferito.
Allunga una mano verso di me, trova la mia bocca, ne segue il contorno e ci infila dentro un pezzetto di formaggio. Sa di miele.

Arrossisco ma nessuno lo saprà mai.

venerdì 20 febbraio 2015

Non è curioso avere paura della primavera?

Non pensavo saresti arrivata così presto ed invece sei quasi qui.
O comunque non sei così distante, qualche centinaio di metri forse, fosse possibile quantificare quello che ti divide da me.
Allora diciamo che sei solo a qualche giorno di viaggio? Forse di più.

Ma ci siamo quasi, lo capisco dalla luce che accendo sempre più raramente e da quell’altra luce, quella che viene dal cielo, che sempre più spesso si affaccia e prova ad essere una specie di normalità. 
Ma non mi sembra il caso di parlare di sole.

E  lo capiscono anche i miei occhi, che si stringono in fessure mentre provo a scrivere righe che non assumeranno mai una forma, non stavolta almeno e dicevo che stringo gli occhi per la pigrizia di non alzarmi e mettere quel lenzuolo alla finestra che faccio finta sia una tenda. Rossa.
Ma poi lo faccio, poi mi alzo, perché scrivere con gli occhi a fessura mi fa male, mi fa venire le rughe e mi peggiora  la vista.  

Sono stati mesi strani e lo dico e lo scrivo tutti i mesi, quindi aspetto il giorno in cui scriverò
sono stati mesi normali

Boh.
Intanto devo ammetterlo che sono stati mesi strani o comunque che sono passata dalla morte alla vita e non so nemmeno io come.
Lo sapete?
A me una volta la vita me l’hanno tolta e poi me l’hanno ridata.

A togliermela non lo so chi è stato ma so invece chi è stato a ridarmela e sono state
Parole
Libri
Musiche
Progetti
Cose da fare
Persone da incontrare
Persone che non so nemmeno perché ma mi hanno scelta
Persone che non se ne sono andate
E che sono arrivate
E stanno ancora qui
E non so perché
E poi se ne andranno
Ma va bene lo stesso

E io, per prendermi un po’ di vita l’ho forse tolta a qualcuno
L’ho sicuramente tolta a qualcuno.
Perché così funziona.

Ieri, una patetica ed irrinunciabile e romanticissima serie tv che mi concedo nei momenti in solitaria fatti di lacrimelacrime e Blu che mi guarda attento e pronto ad asciugarle, mi ha fatto riflettere su quanto sia possibile sopravvivere.
Su quanto, strano ma vero, si possa sopravvivere.
Ve lo giuro.
Anche al dolore piu lancinante, alla perdita più assurda
Anche al lasciare andare quella che era ancora solo un’idea e un’aspettativa di tutti.
Ma di tutti chi?
Degli altri.
Ma degli altri chi?
Comunque molto piu degli altri che di me stessa, a conti fatti.

Si sopravvive al non essere quello che gli altri si aspettano da te.
Si sopravvive.

Oppure solo ci si lascia salvare, prendendo seppur restii, il salvagente.

Quello fatto di circostanze insospettabili.
E si resta a galla, dondolando, con gli occhi socchiusi, assecondando il suono di musiche diverse che però confluiscono tutte nello stesso punto.

Ma non è niente di speciale. La mia è una vita banale come un'altra. 
Ed ora che mi sono alzata a mettere davanti alla finestra il lenzuolo che fingo sia una tenda, quella luce s'è affievolita di già.

lunedì 19 gennaio 2015

Ascolta e scrivi.

Come se scrivere tanto fosse una colpa. Se così fosse, allora scusatemi.
Tre donne che possono scegliere tre tracce, possibilmente sconosciute. Tre donne che ascoltano tre tracce e che poi scrivono. Si influenzano e scrivono.
Ecco quello che ho scritto io, si chiama scritturoterapia e mai come oggi è stata una figata totale. 



Forse tra un attimo -El Muniria-

La penombra ci avvolge, visti dal di fuori sembriamo due che si stanno annoiando.
Io sul bordo del letto, tu sulla poltrona. Le uniche cose che avremmo da dirci sono quelle che ci farebbero più male. 
Meglio tacere. Meglio il silenzio. 
Meglio guardare negli occhi le nostre promesse non mantenute. 
Non ci salveremo mai, noi due. 
Non se io o te. 
Non se uno dei due, non decide.
Non se uno dei due non decide di alzarsi, indossare qualcosa e lasciare questa stanza che odora di nulla.
Forse tra un attimo.





Amica Venus

Dove corri? Amica mia, rallenta.
Il concerto inizia tra un' ora e non c'è nessuna fretta.
Non mi va di arrivare prima e sorbirmi la trafila del pre-serata, quando tutti sono troppo lucidi ed impacciati per scambiarsi qualcosa di più che non frasi di circostanza e finti che piacere rivederti.
Vai piano, amica mia.
Cammina accanto a me ed anche se fa freddo, affacciamoci da questo ponte, osserva con me il fiume che, sono certa, domani sarà di ghiaccio.













Atoms for Peace



Mi fanno male gli occhi, vorrei togliere le lenti.
Ma poi tutti vedrebbero il mio occhio incolore.
Mi sforzo di apparire normale e prima ancora di pensare che la normalità non esiste.
E che se pure esistesse io non vorrei farne parte, dei normali. 
Tra 10 minuti si apre il sipario e dovrò uscire fuori.
Non deludo le aspettative.
Se potessi indosserei la maschera di Frank.
Se potessi sarei ridicolo e geniale, se potessi vi manderei tutti a fanculo.
Invece ora suonerò per voi.
Ed anche se non vi vedrò, saprò che ci sarete.
Sarete lì: emozionati, umidi, desiderosi.
E io mi vivrò ancora una volta il peso, di sapere che siete lì per me.



domenica 18 gennaio 2015

Palpebre chiuse.

È andata così, Agata ci ha dato un esercizio in cui avremmo dovuto descrivere "la volta in cui abbiamo tradito la fiducia di qualcuno".
 Io non l'avevo fatto, poi però Daria ha scritto un post
(una donna che va via, di notte.)

ispirandosi proprio a quell'esercizio e a me è venuta voglia di scrivere questo.
Io non so se capite che tutto ciò -non il mio scritto, ma TUTTO ciò- è una figata, lo spero per voi.


Lasciare questa stanza d'albergo, nel cuore di una notte silenziosa in cui i secondi vengono scanditi solo dalla goccia del rubinetto che perde, è forse la cosa più dolorosa che le sia mai capitata nella vita.
Questo che sta abbandonando, nel mezzo di un ignaro sonno è l'uomo che le aveva affidato la propria, di vita, che le aveva aperto le mani, gliele aveva richiuse e nel mezzo aveva lasciato se stesso.
Nessuna promessa, nè progetto, solo lui e tutto il caos che conteneva.
E lei, mai come quella volta sentì forte, sulle spalle, tutto il peso dell' essere stata scelta.

Erano lui e il suo bambino, quando li vide la prima volta, erano davanti ad un distributore di benzina. Li sorvolò con gli occhi senza soffermarsi né sullo sguardo concentrato del piccolo né sugli occhi che, ci avrebbe potuto giurare, un tempo erano stati profondi, dell'adulto che lo teneva per mano.
Li sorvolò ed andò oltre perché quello era, da sempre, abituata a fare.
Ma poi lui si mosse, lui la guardò, lui la chiamo, lui la scelse.
E lei non trovò, in quel macigno che le piombò sulle spalle, un solo motivo per dire no.

E seguirono giorni di silenzio, giorni in fuga, giorni a fingere che in fondo era normale così.
Alberghi, case, i chilometri e loro tre, in un curioso equilibrio triangolare che per un po' le sembrò la perfezione.

Ormai non manca molto alla città nella quale lei ha promesso di accompagnarli: qualche altro giorno di viaggio, altre parole, altro aiuto, altre notti di quella specie di amore ed altro, prezioso, reciproco, conforto.

Non sa bene cosa succederà una volta arrivati e non le importa ma sa che per lei non finirà lì. Lei è dentro, ormai. Lei ce li ha dentro. Lei è l'incubatrice.

Se apre le mani li può vedere, quei due, quelli che senza di lei non ce la faranno mai.

Non porta via niente con sè, stanotte. Stanotte è la notte in cui decide di andare via.
Si alza dal letto e prende lo zaino, immagina gli occhi dell'uomo dietro le palpebre chiuse, pensa che se lei avesse ancora un'anima avrebbe voluto toccare la sua, di anima, anche se per poco.
Gli sistema un ciuffo di capelli sulla fronte. Pensa che è bello.

Poi guarda il bambino, inaspettatamente lui apre gli occhi e la guarda per qualche secondo.
Quello che vede dipinto sul volto di quell'impenetrabile esserino, si chiama delusione.

lunedì 12 gennaio 2015

2003 circa. Perché no? Viaggiocake.


(L'esercizio era il viaggio. Vero, finto, desiderato, ricordato, solo immaginato.
 Ecco il mio)



Sono poche le volte che disse NO e quella, non fu certo una di quelle -poche- volte in cui lo fece.

Disse sì. Perché era la cosa più invitante al momento.
Perché era conviviale e quello che le veniva offerto appariva delizioso, perché era ubriaca e soprattutto perché no?
Così disse sì. Il locale era chiuso agli avventori ma aperto per loro, per festeggiare l'ennesimo Erasmus in partenza ed in Spagna, se c'è una cosa che sanno fare bene, è festeggiare. 

Così mangiò un pezzo di torta, come un'Alice golosa ma meno ignara.
"Vacci piano, è fatta in casa"
"Ma sì, tranquilli"
E poi un altro pezzo, piccolo.
Si leccò le dita, si sentiva curiosa, non aveva paura.

E poi arrivò l'ovatta.

E poi all'improvviso, camminando al fianco della sua coinquilina per raggiungere un altro locale si soffermò su una bottiglia di birra per la strada, sull'etichetta campeggiava un volto di donna, l'equivalente femminile e spagnolo del Signor Moretti.
L'etichetta le parlò.
La signora disegnata aprì la bocca e provò  a parlarle ma lei non riuscì a capire niente perché in quel momento era come se le nuvole del cielo si fossero fatte di zucchero filato ed ovatta per poi infilarsi nelle sue orecchie.

Si fermò, prese la sua amica sottobraccio e provò a spiegarle che le stava accadendo qualcosa di tremendo e bellissimo ma non era certa che lei potesse capirla.
Vampate di calore le colorarono le guance ed ecco mille biglie colorate vennero lasciate cadere nella sua testa. Girarono, rimbalzarono, ne seguirono i bordi come infilate in un contenitore, tondo, di vetro.

Le vedete le biglie? Sono i pensieri. Provate a fermarli se ci riuscite.
Lei non ci riuscì ed anzi capì, che provare a fermarli sarebbe stato un errore ma non uno di quelli belli.

Entrarono in un altro locale, vicino casa sua. Era un jazz club ospitato in un palazzetto a due piani, finestra ad angolo, la prima a catturare la sua attenzione. Era aperta.
Mille voci provenienti dalle mille bocche di mille persone senza volto, intorno e dentro di lei.
Non sapeva quale seguire.
Poi arrivò lui, forse un amico, forse uno sconosciuto, non lo saprà mai: la prese la testa per mano e l'accompagnò.
Seduti in quel locale affrontano il quadro più difficile di quel videogioco in cui era incastrata.
Avanti, indietro, ferma, seduta, in piedi.
"Ti immagini se adesso saltiamo giù?"
Si guardarono senza vedersi, non saltarono.
Ma avrebbero potuto.

Poi arrivò una delle volte che, sbagliando, disse no.
"Resta con noi"
"No, vado a casa."

Bevve una tazza di latte freddo ed improvvisamente la testa le venne risucchiata dentro.
Tornò fuori respirando a fatica.