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giovedì 23 aprile 2015

Duemilaquattrocentosecondi



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E’ ormai notte fonda e tutto è solo un ricordo, ricordo che  però non arriverà mai ad essere lontano, che anzi si fonderà con altri giorni ed altre ore pur rimanendo per sempre altro, per sua natura terribile.
Le ore hanno fatto da spartiacque e adesso non rimane che compilare qualche modulo prima di cercare conforto nel buio.
Perché non c’è altro che si possa fare. Non più.

Soltanto una manciata di ore prima Luca  era stordito dal profumo del Ponentino. Gliene avevano parlato gli occhi pieni di pagliuzze dorate di una ragazza romana, che quella sera riflettevano il fiume di una città che non era la sua, quella sera , forse l’unica, in cui lui non sapeva ancora che l’avrebbe amata fortemente.

Gli occhi di Mia raccontavano le contraddizioni e gli odori di una Roma che non l’avrebbe lasciata mai in pace, che sarebbe rimasta sempre tra la sua lingua e i suoi denti, nascosta dietro ad ogni parola.

Ma fino a quella mattina di maggio lui non era riuscito a capire davvero il senso di quella città.  
E invece aveva voglia di capirla, a fondo,  perché farlo avrebbe significato entrare in lei ed era l’unica cosa che desiderava davvero.

Così, l’invito al matrimonio di un amico d’infanzia di Mia, gli sembrò l’occasione perfetta per conoscere quelle due strane e nuove creature: una donna e la città che l’aveva vista crescere.

Porta anche Lolli

disse lei istintivamente mentre prendevano un caffè pianificando il viaggio e in quel momento a Luca non sembrò così folle l’idea di affrontare 600 km con una donna che conosceva da poco tempo, pur essendone già dipendente e con un bambino di 3 anni che invece dipendente lo era da lui, dal suo papà, nonostante le gambette corte ed incerte lo portassero spesso lontano, ad esplorare con sguardo curioso quel mondo troppo grande per i suoi occhi piccoli.

Giunti nel casale dove di lì a poco si sarebbe svolta la cerimonia i tre si prepararono: lui perse parecchio tempo nel provare ad infilare le scarpe eleganti al piccolo, tanto che  alla fine optò per le solite Kickers ormai sformate e lei per caricare di eyeliner nero i suoi occhi, consapevole però che non era c’era bisogno di quello perché lui ci si perdesse dentro.
E così ebbe inizio la serata tra cibo, vino, musica e chiacchere.

Luca ascoltava rapito i racconti di Mia che lo inondava di ricordi descrivendogli ogni angolo di quella città che osservavano dall’alto della terrazza: lavori, primi appuntamenti, strani incontri, la sua famiglia, il suo gatto, tutto gli appariva familiare.
Le parole di lei lo trasportavano placide sul fiume di quella vita in cui lui non era nemmeno pensiero.

Si distraeva solo per controllare Lolli che curioso si aggirava tra i tavoli, mangiava servendosi con le mani sporche di terra direttamente dal buffet e beveva grandi sorsate di succo di frutta nonostante la mamma e cioè la sua ex compagna, si fosse raccomandata di non fargliene bere troppo se non voleva accompagnarlo  in bagno ogni 5 minuti.

Ma Mia era così interessante e la sua scollatura così accogliente che Luca facendo con la testa ad ogni sua frase, si immaginava nell’atto di appoggiare l’orecchio al suo seno, per sentire il suo respiro innalzarsi,  fino ad arrivare con le labbra lì dove lei avrebbe avuto un sussulto.

Papà, posso andare giocare coi pagliacci?!”

Luca si voltò schiarendosi  la vista che il Pinot Grigio gli aveva reso annebbiata e in pochi secondi mise  a fuoco due clown: una ragazza alta e magra e un ragazzo di media altezza.
Il trucco era perfetto e così l’abbigliamento  e come da tradizione i due non parlavano ma comunicavano a gesti e grandi sorrisi.
Solo lei, in via del tutto eccezionale infranse la regola del clown ed usò la voce per chiedere ai genitori se i bambini potevano  seguirli per giocare insieme, una sola breve frase e poi riprese quel linguaggio sfarzosamente silenzioso fatto di passi lunghissimi e gesti ampi.

Così Lolli insieme ad altri 5, 6 bambini seguì i due e Luca riuscì a vedere il punto esatto in cui si sistemarono: i bimbi in cerchio e i due clown davanti a loro, pronti ad intrattenerli con palloncini  che di lì poco avrebbero preso la forma di cani e spade e giochi che li avrebbero fatti urlare di gioia e saltare dall’emozione.

Nell’andare via rumorosamente formando uno squinternato trenino che gli ricordò i Bimbi Sperduti di Peter Pan, Luca notò che il clown maschio si voltò e gli rivolse uno sguardo leggermente più lungo del normale, lui lo sostenne  assumendo un’espressione seria ed incuriosita e l’altro distese la bocca lasciando scoperti dei denti giallissimi.
Una specie di ghigno traverstito da sorriso che lo fece rabbrividire per un attimo.

Si avvicinò la sposa, una specie di fata degli elfi, scalza con morbidi boccoli castani lungo le spalle nude

“i ragazzi sono bravissimi, vedrai il tuo bambino si divertirà moltissimo. Lei ha già lavorato al matrimonio di mia cugina. Avete assaggiato la crema fritta? È favolosa. Divertitevi ragazzi, a dopo

disse tutto d’un fiato, da copione, come avrebbe detto a prescindere dall’interlocutore, come quando in un giorno sognato così a lungo ci si ritrovava a dover parlare con tutti e cento gli invitati, con o senza voglia.

Luca apprezzò il gesto ed anzi si sentì rassicurato dalle referenze dei due ragazzi, Lolli era piccolo e scapestrato e lui sperava di non dover litigare con nessun genitore, non dopo il fine settimana scorso quando dovette staccare il figlio dalla guancia di un compagno di giochi colpevole di avergli preso una macchinina.

Mia si era spostata a parlare con un tipo alto e ben piazzato e Luca paziente ne aspettò per un po’ il ritorno continuando a bere e  facendo fare ai suoi occhi la spola tra lei e il gruppetto di bambini urlanti e pensando a quale potesse essere il motivo che spingeva degli adulti a doversi vestire da pagliacci per far divertire dei piccoli indemoniati e  poi di nuovo tornava a Mia che con una mano teneva il bicchiere e con l’altra giocherellava con la collana e rideva e si spostava col corpo in avanti e poi rideva ancora mettendosi la mano davanti agli occhi e di nuovo parlava fitto fitto con il tipo alto.

Andiamo a fare un giro nel parco?” le chiese, avvicinandosi e lanciando uno sguardo che non lasciava speranze al  coraggioso intruso.
Lei sorrise come a dire “sapevo lo avresti fatto” presentò i due, si congedò e prendendolo sottobraccio si allontanò con lui verso il parco.

Passarono vicino ai bambini e Luca disse a Lolli di non muoversi e rimanere sempre con i pagliacci, lui sembrò averlo capito ma lo spettacolino in quel momento era troppo interessante per rispondergli.

Luca e Mia si baciarono, come da copione, nascosti nel folto di un parco che non sembrava possibile essere al centro di quella città nevrotica eppure seduttiva.
Si baciarono ancora, si misero le mani tra i capelli e sotto i vestiti, con una frenesia che nessuno di loro provava  da tempo e in quel modo che è quasi mangiarsi avvicinarono i loro corpi fino a sentirli avvampare.
Nessuna sorpresa, sapevano entrambi che sarebbe successo, aspettavano solo l’occasione giusta.
Poi passò quel tempo che non si sa mai quanto è, che avresti detto dieci minuti ed invece è mezzora oppure un’ora.

Un’ora e mezza!
Cristo, Lolli!

Luca e Mia tornarono indietro correndo e nello scoprire che c’erano ancora quasi tutti gli invitati e che la festa era ben lungi dal terminare, tirarono subito un sospiro di sollievo.
Ma il sollievo durò poco: si diressero velocemente verso i due clown circondati dal gruppetto di bambini che però non era più un gruppetto. Erano solo tre. E tra quei tre, Lolli non c’era.

Una morsa di terrore strinse lo stomaco di Luca ma con calma chiese alla ragazza
dov’è Lolli?

Lei, che non avesse avuto la faccia truccata di bianco, sarebbe impallidita, si guardò velocemente intorno e disse
Ehm, non lo so. Ha detto che doveva fare pipì e che poi sarebbe tornato da lei.

L’uomo, d’istinto cercò con lo sguardo il clown maschio che era di spalle intento a sistemare nelle borse colorate giochi ed attezzi , questo si voltò e di nuovo gli rivolse quel ghigno che ormai non aveva più dubbi, era malefico.

Ma l’avete mandato da solo? Ma siete pazzi? E’ piccolo.
Ma noi non ci siamo presi mai la responsabilità del bambino, i genitori stanno sempre qui intorno, passano a guardare, lei è sparito! Ho pensato che il piccolo l’avesse trovata.

Nel centro esatto del triangolo che vergogna, terrore e rabbia formavano, Luca si mise a cercare il suo bambino ovunque, col cuore in gola, le mani sudate e la mente invasa da immagini catastrofiche e cruente, i film horror che avevano accompagnato tante sue serate gli presentavano ora il conto tornando sotto forma di terribili fantasie.

Tornò al tavolo del buffet, guardò vicino al palco sul quale suonava ancora il gruppo, corse alla terrazza e premendo i pugni sopra il marmo ormai freddo del cornicione, istintivamente guardò giù.
Nulla tra le siepi, nulla sulla strada. 
Luca pianse per il sollievo di non aver trovato il corpo del suo bambino schiantato al suolo e per la disperazione di non sapere dove cercarlo. Gli tornò in mente il ghigno del clown e fu lì che pensò al peggio, che si preparò a veder morire una parte di sè. Si morse le labbra fino al sapore ferroso del sangue e le odiò e con loro odiò il mondo in cui entrando in quelle di Mia gli fecero perdere la cognizione del tempo e l’unica cosa che davvero contasse nella sua vita, l’unica cosa buona che aveva fatto: quel bambino buono e curioso dagli occhi blu.

Prese il cellulare e chiamò la polizia pronto a denunciare la scomparsa, erano passati quaranta minuti ed avevano guardato ovunque, chiesto a tutti, pensato ad ogni eventualità.

Il brusio che si levò all’improvviso spezzando in due quel silenzio di morte, lo fece voltare lentamente e tra le lacrime intravide due figure: un adulto, forse una donna, che teneva per mano un bambino.
Fu lì che la mente si fece inganno e si divise in due metà esatte: una parte era convinto di averlo ritrovato e l’altra invece voleva credere che si trattasse di un altro bambino e non certo di Lolli.
Perché Lolli non c’era più, era scomparso e con lui tutti i bambini della terra, insieme a i fiori e  ai fiumi.

La  donna si fece più alta, lo sovrastò con la sua figura e lui, non avendo il coraggio di guardarle il braccio e seguirne la linea fino ad arrivare a quel bambino che di certo non era il suo, la fissò in un punto imprecisato in mezzo al viso.
Lei aprì la bocca dicendogli
“L’ho trovato che dormiva in una delle scatole in cui teniamo i giochi.” 
Non si era mai mosso di lì, si era addormentato.

Nel frattempo arrivò la polizia
è lei che ha denunciato la scomparsa di un bambino? Ci sono dei moduli da compilare
E di seguito, come una buffa ed inaspettata risposta, arrivò la voce del piccolo
Papà, andiamo a casa?
Luca ritrovò il battito perso del cuore e la saliva nella bocca, lo stomaco si distese ed abbracciando Lolli lasciò andare incubi o paure.

O almeno, fu ciò che in quella profumata e surreale serata romana credette di fare, perché in realtà quell’assenza, quel buco nero lungo duemilaquattrocento secondi, sarebbe tornata a trovarlo puntuale, ogni notte della sua vita.

domenica 22 marzo 2015

Lamiavitain20minuti.

Erano due ragazzini che facevano l’amore in macchina, i miei genitori.
Lui operaio, lei commessa in un negozio di libri: 22 e 21 anni.
Sei bassetta perché t’abbiamo fatta nella 500” si diverte a ripetere ancora oggi mio padre in una delle sue mille battute tutte uguali che  mi strappano sempre un sorriso, seppur a volte esasperato.

Ma  a pensarci bene ne ho avuta un’altra di mamma, mia nonna Adriana, bellissima e formosa romana di Garbatella, con le labbra carnose, la risposta pronta e una profonda depressione che nessuno mai capì. E che mi amò e coccolò per tutto il tempo che ebbe.
Si racconta di me che a due anni piangevo di commozione guardando Heidi, che chiaccheravo troppo e che stavo ore nella libreria dove mia madre lavorava, seduta a terra a leggere libri che se mi concentro  sento ancora l’odore di carta e del legno dei vecchi scaffali: tutto torna.

E la scuola, dove non ho mai brillato per impegno ma dove sono sempre stata involontariamente leader. E sì che a me i leader mi sono sempre stati sul cazzo.

La comitiva, la primavera, il primo bacio dato in chiesa, il rossetto messo per le scale perché mio padre “se ti becco per strada col rossetto ti lavo la faccia alla fontanella”.

E le amiche che ho fatto soffrire e quelle che hanno fatto soffrire me e poi, in un pomeriggio d’inverno ecco che arriva lui.
Introverso, timido e sbruffone col CIAO modificato e un appuntamento al quale è stato in grado di arrivare con 25 ore di ritardo, sorridendomi ed infilandosi nei miei giorni,e non solo in quelli, per i 6 anni che avevamo davanti.
Le fughe nella casa al mare, il fare l’amore per la prima volta davanti al camino tra i cuscini colorati, il prenderci gusto, il non fermarsi più.
L’essere l’uno per l’altra fondamento e al tempo stesso distruzione degli adulti che saremmo divenuti un giorno. Lui, che ancora oggi è una delle persone più folli ed amorevoli che ho nella vita, che solo adesso, dopo 15 anni, posso frequentare senza sentirmi inquieta.

Poi l’improvvisa morte di mia nonna e con lei di una parte di me ma anche l’affermarsi di una realtà: io non ricoprirò mai il ruolo che la società proverà ad affibbiarmi, io non rinuncerò a nessun battito del cuore in nome di nessuna coerenza o stabilità. Io non sarò prigioniera dei miei giorni, nonna. So che se avessi potuto, me lo avresti fatto promettere.

Poi il primo amore che finisce e il ritrovarmi a 23 anni convinta di essere ad un passo dalla morte ed invece, posso dirlo? A 23 anni non si è proprio a un passo da nulla, si è solo una lavagna bianca e c’è soltanto da pregare che qualcuno ci scriva sopra nel modo migliore.

E via, si vive.
Si esce, si balla, si fuma, ci si droga, si va in coma etilico, ci si perde, si ascolta la musica, si viaggia, si scopa, si soffre, quanto si soffre, si scrive, si studia, non ci si riesce molto bene ma si legge (tanto), si gode, ci si trattiene (poco), si pensa (non sempre), ci si innamora più volte e c’è sempre un abisso profondo da cui riemergere però santo dio, che bello è stato affondarci, treni e lacrime sui binari.
Poi si parte per la Spagna e si torna. Poi si parte per un’isola e si torna.

Poi si incontra una persona diversa dalle solite, una persona calma, realizzata e serena e ci si dice “perché no?” forse vale la pena fermarsi con lui, forse l’amore non è sofferenza ma comprensione, condivisione, serenità. Forse.

Mio padre si ammala. Ah sì? E io mi sposo. No, non c’è un legame, non cercatelo. Andrò così: al mio matrimonio tenni le scarpe mezzora e mi vestii di verde.

E poi c’è la vita a Roma che diventa una camera a gas ma c’è anche una macchina e un “sì, andiamo” e poi c’è Berlino.

Poi c’è un bambino, un maschietto che arriva e se ne riva. O prova ad arrivare, di sicuro se ne va, una breve visita che diventa la fine dei miei giorni e subito dopo la possibilità di nascere nuovamente.
Perché nonna, non me la scordo la promessa che non ho fatto in tempo a farti: nessun ruolo, nessuna categoria.
Quindi ora la mia vita è il contenuto caotico di una borsa in cui ci sono cose molto preziose e qualche cosa inutile, l’ho rovesciato sul tavolo e lo sto osservando in attesa di decidere cosa farne.

Di lei e di me.

lunedì 1 settembre 2014

Basi e passaggi. Ieri e oggi. Andate e ritorni.



Riflettevo con un'amica* sulla spiaggia al tramonto 

o almeno mi sembra che si trattasse di una spiaggia al tramonto, in ogni caso mi piace pensare che questa riflessione che vi sto per raccontare io l'abbia fatta proprio su una spiaggia al tramonto

che forse la condizione dell'emigrante mi è proprio congeniale.

Non mi è capitata per caso, non si è trattato solo di necessità lavorativa, del cercare una vita migliore, della crisi in Italia, della voglia di provare qualcosa di diverso.

Forse in fondo a tutti questi motivi c'è, dolcemente adagiata, quell'affascinante malinconia che la condizione porta con sé, quell'intrinseca nostalgia delle persone care che mi accompagna ogni giorno.

E che mi piace, non posso negarlo. Mi piace sentire delle mancanze, mi piace immaginare, mi piace ricordare. E mi piace fare tutto ciò continuando a vivere.


Ad esempio mi è sempre piaciuto, al ritorno dalle vacanze, guardare per un'ultima volta il panorama (quasi sempre un mare da cartolina) la sera o la mattina, dipende dall'ora in cui ci si rimetteva in macchina per tornare a casa, in ogni caso riuscivo a ritagliarmi qualche minuto per tornare, spesso da sola, ad osservare il luogo che stavo per salutare e per soffermarmi su quel dolore fisico allo stomaco, sulle narici piene dei giorni appena trascorsi, su quel già mi manca, su quel ci vediamo l'anno prossimo.


Ed è così che qualche giorno fa ho guardato per la prima volta Roma. L'ho guardata dal finestrino della macchina che da via Angelo Emo ci ha portati di corsa a Fiumicino, e poi l'ho guardata anche dal finestrino dell'aereo, soffermandomi sul mare che sembrava davvero limpido.

Roma che è sempre stata base solida e che invece, dopo tanti anni si è trasformata improvvisamente in luogo di passaggio, in un posto in cui tornare a leccarsi le ferite, in un posto dove inaspettatamente rilassarsi, in un luogo di amori primitivi e proprio per questo adatto per potersi prendere una pausa dall'amore di oggi. 

Dall'amore totalizzante che pretende un cagnolino complicato come il mio, ad esempio, da quello più delicato ma comunque importante che provo per Gimli.
Dall'amore solido per il mio compagno di vita, dall'amore travolgente per questa città bipolare e sempre nuova in cui viviamo da più di un anno.

Pausa. 

E si torna indietro di vent'anni, di colpo. Vent'anni fa.

Rendersi conto di avere così tanto da ricordare e da raccontare su qualcosa che ha vent'anni, qualcosa che è accaduta vent'anni fa, ti mette di fronte all'età che passa e lo fa in modo molto più deciso di quanto abbia mai fatto un qualsiasi specchio. 

I miei ricordi hanno vent'anni e sono una bella ragazza alle prese con l'università, che ha già la patente da un paio d'anni e che guida il motorino ormai da sei.

I miei ricordi ormai hanno una vita sessuale e assumono un anticoncezionale.
I miei ricordi sono già partiti per un interrail e sperano fortemente di poter partire per l'Erasmus. 
Rendiamoci conto, i miei ricordi sono adulti.

Vent'anni fa: la comitiva da Lolita nei pomeriggi d'estate che non passavano mai, a fare la conta di chi era già partito e chi invece era già tornato e quando parti tu e quando parto io. 
A Fregene con il pullman dell'Acotral bollente e schioppettante sull'Aurelia intasata.

Una cameretta troppo piccola da condividere con una sorella troppo piccola.

E poi, il primo vero amore, in un giorno di (boh diciamo novembre) che si presenta in comitiva con un motorino che faceva un casino incredibile e non vi fate nemmeno tanto caso, che poi tu stai già con un altro che però presto lascerai in un pomeriggio al Gianicolo rifuggendo dai suoi baci adducendo come scusa un originale mi strucchi.
(Forse sarebbe stato più corretto dirgli mi stucchi, beata gioventù.)

Poi il famoso appuntamento in cui si presentò con 25 ore di ritardo che avrebbero dovuto dirmi tutti su quello che sarebbero stati i successivi sei anni. E invece per fortuna non mi disse niente e furono assolutamente faticosi, deliranti, dolorosi, avventurosi ma proprio per questo meravigliosi.

E se vent'anni fa (circa) ad esempio mentre tornavate dal Festivalbar di Napoli e giungeva la notizia della morte di Lady Diana o mentre attraversavate la Sardegna in Vespa, o mentre aspettavi che finisse di modificare chissà quale motorino o peggio ancora mentre cercavate di lasciarvi al telefono, di persona, per lettera, tra le lacrime, le liti, il dolore, entrambi incapaci di staccarsi dall'altro nonostante poi fosse davvero l'unica cosa sensata da fare, se in uno di quei mille momenti qualcuno ti avesse detto che vent'anni dopo lui ti avrebbe aperto le porte della sua nuova casa e della sua nuova vita abitata da una compagna fantastica (*l'amica della spiaggia al tramonto) e un figlio speciale, sveglio, simpatico e felice, tu avresti risposto ma è impossibile!

E invece non è stato affatto impossibile, è stato bellissimo.

Concederci dei giorni insieme, ridere di ciò che è stato, ritrovare dei modi di dire che ancora abbiamo, tornare negli stessi luoghi di quei tempi, ed osservare le nostre vite di oggi: complicate, piene ma felici. E gioire di questo. E sentire fortemente che certi legami, non si dissolveranno davvero mai.


Anche questo è stata la mia vacanza.

Oltre ai miei piatti preferiti cucinati da mamma e papà, al perdermi con la macchina per una Roma vuota, all'amare mia sorella anche nei momenti di odio, all'aperitivo al Pigneto, al non trovare più il Gianicolo (?!) ad un mare toscano bellissimo, al sentire che mi stavo ustionando e non prendere provvedimenti, alle ore ed ore in acqua, ai saluti ai nonni, agli amici di sempre, a quelli che avrebbero voluto ma non hanno potuto, a quelli che passano in sordina e va bene così.

Qui a Berlino il segno dell'abbronzatura stride col cielo che già ne promette delle belle e con le giornate che iniziano ad accorciarsi, io non vedo l'ora di rituffarmi nella routine di un autunno e di un inverno che spero sarà più clemente di quello trascorso. E non parlo di meteo.

Domani torno anche a scuola di tedesco.
Oggi devo fare un ripasso:


Heimweh  (da Heim casa e Weh dolore)  richiama alla mente il dolore che si prova quando si è lontani e si pensa alla propria casa, ai propri affetti.

Fernweh (Fern lontano e Weh dolore) è la nostalgia per dei posti lontani che non si conosce ancora.


Ed io soffro di entrambi oltre alla sempreverde "nostalgia per qualcosa che non vivrai mai" che Baricco non ha avuto di meglio da fare che infilarmi in testa tanti anni fa e per la quale non credo esista ancora una parola in tedesco. 

sabato 5 aprile 2014

Primi Tre Mesi

Lo so che ve lo state aspettando, o che lo state temendo o che non ve ne frega niente perché vi siete già dimenticati di me  ma in ogni caso vi rassicuro:
no, non trasformerò questo in un blog per mamme emigrate a Berlino, state sereni.

Ce ne sono già tanti di blog di mamme, forse troppi. Alcuni fatti molto bene, altri che invece farebbero bene a chiudere domani ma questo discorso ritengo che valga un po' per tutte le informazioni sulla gravidanza (e salute in generale) che si trovano in rete. Per carità.



È che siamo abitate, da queste parti e nonostante non ne abbia fatto un mistero fin dall'inizio non rispettando quella buona abitudine di tacere fino al (alla fine?) del terzo mese, sul blog non ne avevo scritto mai. Ed eccomi oggi, pronta a provvedere, lungi da me voler dare consigli: non troverete qui niente di utile probabilmente, se non la mia esperienza e no, non sarà un diario e non troverete nemmeno i termini in tedesco perché ho pensato bene di trovarmi una ginecologa tedesca ma parlante italiano.
Se a questo punto state ancora leggendo, mi sento di dirvi che vi voglio bene.

Come forse saprete, o forse no, viviamo a Berlino da 9 mesi e qualcosa e a Roma facevo un lavoro molto stressante fatto di ore di macchina, traffico, cose molto pesanti da trasportare e bambini (vedevo e conoscevo i nomi e i caratteri, di circa 300 mocciosi a settimana): insegnante di Teatro nelle scuole materne. 

Fare figli non è mai stato il mio "sogno nel cassetto", così come non lo è mai stato sposarmi e nessuna di queste cose che dette così sembrano dipingere una vita perfetta e felice ma che sappiamo bene, a volte servono solo a mascherare tutto quello che manca (oggi è nuvoloso, abbiate pazienza). 
Il mio non aspettarmi niente però mi ha portato un sacco di cose belle e per quanto faccia figo dipingersi come irrisolte e complicate (quanto acchiappavo all'epoca), in realtà sono serena e sempre confusa, ma non quel confuso che rovina tutto, che credo sia  lì che risieda la vera differenza.

Sto bene. E stavo bene anche 3 mesi fa, per capirci, ed è forse proprio per questo che ci siamo detti per l'ennesima volta: ci proviamo? Sarebbe divertente avere un frugoletto nella vita. Qualcuno da far crescere coi nostri cani, qualcuno in cui intravedere i miei (o i suoi occhi) e il mio (speriamo il suo) carattere.


Prove tecniche di fecondazione


Già a Roma ci avevamo provato e per provato intendo avuto rapporti nei giorni fertili, ma solo un paio di volte (nei giorni giusti, state sereni) ma diciamocelo, quando scavalli i 33, per non parlare dei 35 e sei addirittura sposata da 3, 4 anni gli sguardi della gente ti dicono: "guardala, la povera sterile", nessuno mette in conto che forse non vuoi figli, che forse vuoi aspettare (ma che vi frega a voi se voglio aspettare fino a che non mi si secchino le uova?), che forse hai paura a mettere al mondo un figlio con un marito disoccupato e tu che lavori come un mulo e quegli sguardi, uniti alla paranoia che ti accompagna da quasi sempre si insinuano dentro di te che ti guardi la mattina dicendo: "chissà se ce la farò mai?" e pure se senti che non è quella la cosa essenziale, che non hai bisogno di sdoppiarti per essere completa, pure se non hai la maternità che ti sgorga dai pori della pelle come colostro dalle tette, ti imparanoi e arrivi a pensare che sicuro sei sterile. Così, senza aver provato almeno un anno ad aver rapporti nei giorni fertili (così le ginecologhe serie consigliano di fare)  o aver fatto un'analisi. 


Poi metti in un angolo l'idea e tutte le idee che riguardano la gravidanza e  partorisci quella del trasferimento, arrivi a Berlino in 6 mesi la tua vita trova quell'equilibrio economico che non ha avuto mai e arriva il 2014, finalmente i parenti (scherzo, mi mancate sempre) dopo le feste di Natale se ne tornano a casa, vi riguardate e vi dite: "vabbè, ci riproviamo?!"


Un bel giorno vai su Google e metti il giorno dell'ultima mestruazione (per carità, non fate come, fate le serie e andate da un ginecologo.) ti esce questa bella data in un verde fertile che ti dice che sei fertile come un campo di grano (ma io sicuramente sarà sterile, che ne sa Google?), adeschi tuo marito senza dirgli nulla dei piani di sdoppiamento perché pensi sia inutile infilarlo in un'inutilissima competizione in cui l'ansia potrebbe avere la meglio e quando a cose fatte invece di scattarti un selfie ti metti a cianche all'aria  come quando hai le gambe gonfie (aho su Forum al Femminile lo fanno tutte!) e lui ti chiede "ma che stai a fa?!", tu glielo spieghi e lui ride.

(ridi, ridi!) 


Il ciclo ritarda, non che tu sia proprio un orologio ma una settimana è tanto e lì arriva la Paranoia che ti dice: "certo, ora con l'ansia non ti arriverà il ciclo ma  non rimarrai incinta e rimarrai incastrata in questo limbo per sempre" fino a che il 14 febbraio (poi dite che non sono romantica) salto la scuola, mi sentivo tanto Sara della canzone di Venditti, compro uno Schwangerschaftstest vado al bagno col telefono,  Blu al solito viene con me e si mette sul tappetino del bagno a fare la guardia e mi Whattsappo con Laura e Chiccola e dico loro che sono pronta ma non mi scappa la pipì, mi suggeriscono di bere (certo che tante volte sono un genio eh?) ed ecco queste gocce benedette, appoggio il test sul lavabo e aspetto. Ma che aspetto, bugiarda, lo fisso. E in due secondi -------

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due belle e nitide lineette. 


Senza aspettare la cena e che lui  torni a casa e fargli trovare un bel foglio con su scritto bentornato Papà, anni ed anni di film e serie tv buttate nel cesso, lo chiamo e gli dico:" MI SA CHE MI DEVO FARE LE ANALISII! IL TEST È POSITIVO!", che poetica eh? E lui inizia con la settimana della paresi nella quale si aggirerà sotto schock per casa sorridendo come un ebete. 

"Hai capito?! E io che non te davo una lira!", lo apostrofai subito dopo, rivolgendomi alle sue parti basse. 


Subito dopo di lui, chiamo una ragazza che é anche mamma, mai vista e conosciuta che leggo tramite Facebook, che vive qua a Berlino e che gentile, veloce e superefficente mi dice cosa fare. Cioè trovati una ginecologa perché qua fai tutto da una e non devi sbatterti in giro a fare analisi come in Italia.

Trascorro una settimana a dormire, cosa che in realtà credo di aver iniziato a fare dal concepimento, a chiedermi se il test non si sia sbagliato, a guardare il test (?!) a chiedermi quanti falsi positivi esistono, se non sarò troppo vecchia, se non sarò stata troppo frettolosa (sì, le ultime due cose si contraddicono ma ero in stato confusionale, che volete?) e ad andare a scuola dove le mie amiche già sapevano tutto da prima di me ed aspettavano solo la conferma del test, arrabbiate perché non l'ho voluto fare con loro al bagno durante la pausa. La regressione galoppante.


Prima visita (6 settimane) 


Come accennato ho scelto di vincere facile e mi sono scelta una dottoressa italiano parlante, anche se ormai conosco  abbastanza il tedesco, conosco anche le mie paure e io le cose le voglio capire bene: belle o brutte che siano.


Voi avete idea del terrore che i Primi Tre Mesi mettano? I Primi Tre Mesi sono un mostro a Tre Teste (pessimo esempio per una gravida, complimenti!) sono l'Orrore, sono mille racconti di conoscenti ed amiche, sono statistiche che non sai come ma ne sei venuta a conoscenza, sono poi un incubo se sei una over35.

E io decido di combattere i PTM parlandone e scrivendone e placando la mia ansia convincendomi che non esistono superstizioni ma scienza -oltre a tanta positività che, vi potrà sembrare una contraddizione ma nonostante la paura non mi manca affatto e che se qualcosa dovrà andare male lo farà a prescindere che tu abbia tenuto il segreto di Fatima o lo abbia scritto su Facebook. Io credo che ognuno debba scegliere quello che lo fa stare meglio e condividere e sdrammatizzare e ricordarmi sempre chi sono, fa stare bene me.

Mi sdraio sul lettino, dopo che con la dottoressa abbiamo parlato dei flussi migratori di Italiani a Berlino, mi fa una transvaginale e vedo una macchia nera in quel coso grigio che dovrebbe essere il mio utero. 

Ovviamente Paranoia mi aveva riportato alla mente quanti casi di  gravidanze extrauterine esistono e vogliamo non spaventarci un po'? Vogliamo non metterlo in conto? Figuriamoci. Così quando vedo quel Pallocco-a, fino ad allora soprannominato PocoPiùCheSperma non mi permetto di gioire fino a che la Dottoressa non pronuncia le seguenti parole: "ed è esattamente come e dove dovrebbe essere!" e via, le lacrime arrivano quando pensavo di essere non più evidentemente sterile ma comunque arida di cuore ed invece no, ero (sono) solo spaventata.

Grande gioia e felicità, esiste, è qui dentro, è un Pallocco-a!

Continuo la scuola, anzi la finisco e tra stanchezza e quella strana sensazione di dimenticarmi di essere incinta terminata in concomitanza con l'inizio di quel  fastidio allo stomaco come se fossi sempre appena tornata da un festino e un sapore diciamo metallico in bocca, si va avanti: lunghe passeggiate con Blu e voglia di Toast al prosciutto cotto e sottiletta.

Do l'esame per il B1 in tedesco senza aver studiato mai dopo la fine della scuola, penso di essere andata bene ma, diciamolo, la priorità ce l'ho dentro. Ed è una sensazione strana il fatto che tutte le cose pratiche, gli impegni, i doveri  vadano a finire in secondo piano. 

Blu lo sa, ha fatto il test con me e si sdraia col testone sulla pancia.

Seconda visita (9 settimane)


Ok, c'è ed è lì ed ora torniamo dalla dottoressa per controllare come procede, non mi hanno chiamata per le analisi del sangue segno che, visto che qui ti avvertono solo in caso di valori sballati, nonostante i kili in più e l'ipocondria non sono poi così messa male. Vecchia carcassa sfiduciata che non sei altro.

Spesso la misurazione può essere errata e quindi mi comunica che siamo a 9 settimane e non a 10, ahhhh orrore, una settimana in più nei maledetti PTM vabbè, ma ora quello che mi interessa è se il cuore batterà o no. 
Perché ovviamente vuoi non googolare ad una settimana dalla visita "decima settimana"? E vuoi non leggere i commenti? E vuoi che il primo commento non sia "alla decima settimana il suo cuoricino ha smes..." vabbè avete capito? 
Eccheccazzo, io lo so so che non si deve googolare, lo so che sono cose che purtroppo capitano e che sono dolori immensi che cambiano la vita di una donna: ma lo devi scrivere proprio in TUTTI i commenti di TUTTI i forum che trattano della materia? Boh, forse sì.
Vabbè, con l'ansia del cuore (immotivata, ci tengo a precisarlo!) andiamo a farci fare questa seconda trans (è sempre l'ecografia transvaginale, non decidiamo di placare l'ansia con un po' di sesso estremo a pagamento) e vediamo un gamberone, un fagiolone metà testa e metà corpo. Andrea un po' guarda e un po' distoglie lo sguardo e quando lei dice le fatidiche parole: " e questo è il cuore...vedete come batte?" ed io stupita, stupida e felice: "ah...batte?!" che quella avrà pensato che sono una matta: " e certo che batte!!!!"
Andrea ha finito i fazzolettini della dottoressa che lo guarda intenerita e gli dice che lo trova simpatico. 
Poi mentre lui voleva bere alcool alle 10 di mattina, io aspettavo la seconda misurazione della pressione visto che da brava cogliona quando me la misurano lì sembro un vecchio alcoolizzato. Ed invece è solo ansia.

Mando l'ecografia a tutti e mi rilasso, mi faccio rimisurare la pressione che è ok. La prossima volta faremo la translucenza nucale più analisi del sangue e sarà la seconda cosa a pagamento dall'inizio della storia oltre alla toxoplasmosi che qua pare non si faccia molto, per il resto tutto gratis. Non prendetemi per cinica, ma sono cose importanti.


Comunque a me sembra già carino-a, con le guanciotte morbide ma in realtà è un fagiolone viscido.

Per i nomi siamo in alto mare, tanto deciderò io ghghghgh e la pancia inizia a farsi vedere, vero pure che avevo preparato il nido con anticipo.

Ora siamo quasi alla 12ema settimana, quindi quasi alla fine di questi PTM e tra qualche giorno faremo la prossima visita. Sono stata una stupenda settimana a Roma a farmi coccolare, a chiaccherare, a farmi fare i complimenti, a farmi dire "ammazza che panza che c'hai già!",a mangiare, a farmi amare, a fare la figlia prima di diventare mamma.


Mi dispiace non essere incinta a Roma? Solo ed esclusivamente per gli affetti e la famiglia, anche se qui per fortuna non posso dirmi sola, mentre per la sanità per ora sono soddisfatta e fiduciosa.  Senza parlare del fatto che ho la sensazione, che se fossimo rimasti a Roma non sarebbe stato così facile, non alla prima botta, ecco.


Poi sono tornata dai miei amori e alla mia nuova vita, ho ripreso il corso e sto qui: ripiena, curiosa, spaventata, felice e positiva. 

martedì 7 gennaio 2014

13-14

Niente bilancio di fine anno, niente buoni propositi per l'anno nuovo, niente post di saluti, niente di niente.


Eppure il 2014 è stato un anno troppo importante per non chiuderlo con qualche riga perché, come al solito, se le cose non le leggo scritte nero su bianco non mi sembra che siano accadute davvero.

Il Natale del 2013 lo ricordo come uno dei più tristi da che ho memoria, no anzi, il più triste resta quello del 1999 con mia nonna ricoverata in quell'ospedale dal quale, come da lei promesso, non uscì più. 

Lo scorso Natale ha avuto invece il sapore del mobbing, della presa per il culo, dell'arrivismo e della scorrettezza all'italiana. Ha avuto il sapore di un lavoro frustrante ma "questo passa il convento" e poi, all'improvviso, l'ennesima domanda: "partiamo?!" e la risposta che per la prima volta fu diversa. "Sì!
La meta era scontata: Berlino.

E così ebbe inizio quell'anno che da triste si trasformò in speciale: carico di cose da fare, di paure, di organizzazione, di fatica, di timori. Vuoto di ipocondrie ed ansie perché la cura migliore a volte è non avere tempo.
Un anno di saluti, di dubbi anzi forse no, quelli non ne abbiamo avuti mai. Di paura di non farcela forse, quello sì.

Anno che a metà ci vide prendere "baracca e burattini" e arrivare qui dove siamo ora.
E poi altri sei mesi a cercare di capirci qualcosa: una lingua indecifrabile per i primi mesi, e poi subito la scuola, il lavoro, le nuove conoscenze, la casa "d'appoggio" e quella vera che ci ospita, accogliente, adesso.
Proprio oggi mentre mi asciugavo i capelli mi sono ritrovata a dire "non è così male questa casa" perché noi -il mio amore ed io- siamo quelli che niente è facile e niente è subito né, tantomeno, niente è regalato. Mai. Sempre faticato, conquistato, strameritato.

E poi, l'anno è finito ed è cominciato con quella parte di me che è rimasta di là, con la mia metà, con la persona con cui dopo massimo una settimana di convivenza rischio di litigare, diversa da me in tutto, che mi fa ridere fino a soffocare, che mi fa incazzare fino a rendermi una cretina che dice cose idiote, con mia sorella.

E per la terza volta in sei mesi ho visto andare via da qui le persone che amo e so che devo abituarmi a quella sensazione. 
Devo abituarmi anche alla paura di vederle perché poi so che dovrò salutarle, perché io lo sapevo da subito e da subito lo avevo messo in conto ma poi quando ti trovi a dover fare i conti col groppo in gola, tutto cambia.

Tutto qui. Da questo 2014 non mi aspetto proprio niente.
Fine.



martedì 10 dicembre 2013

Storia di un'emigrazione rimandata

Lo trovate anche su Frontiere News

“Lasciare la sicurezza di una vita tra precariato e disoccupazione per l’incerto di un futuro in un altro Paese fa paura, tanta paura. Perché anche se qui il presente e il prossimo futuro sono una merda, é sempre la tua merda. Totalmente assuefatta al suo odore non ti accorgi nemmeno di vivere avendola ben oltre il collo. Finché non arriva qualcuno che ti apre la finestra, ti fa vedere e sentire oltre te stessa. Una vita migliore, quei diritti prima negati ora diritti realmente auspicabili, un futuro per cui tornare a sognare. Ora non puoi più fare finta di nulla. Non puoi più tornare indietro. Si parte. Nuovi progetti. Nuova vita. Francesca in questi mesi sei sta fonte di ispirazione inesauribile. Sei stata una boccata di aria fresca come mai nella vita! Ecco, grazie!”

Qualche tempo fa ho ricevuto uno di “quei messaggi”, di quei messaggi che ti arrivano tra capo e collo e che ti danno la possibilità di sbirciare un po’ nell’immensità della vita di un’altra persona. 

Un messaggio arrivato inaspettatamente da parte di una persona che conosco poco, amicizia da social network e a dirla tutta neanche delle più interattive, amicizia di tante battaglie civili condivise, di qualche manifestazione in piazza. Persona che come me mesi fa, come tanti, come troppi ultimamente, decide di aprire la porta ed andarsene dall’Italia

Anche Claudia è decisa a provarci, “perché no” si dice? “Perché no”, le rispondo. Lei ha quasi quarant’anni e una laurea in Economia che da subito l’avvicinò al mondo dell’Altra Economia, con la voglia forte di contribuire in qualche modo al cambiamento e dopo esperienze non sempre positive di volontariato più o meno remunerato e sempre troppo simili ad un lavoro in nero, approdò in un emporio di commercio equosolidale, attività in cui si lanciò con entusiasmo e gioia, attività però che prevedeva un contratto a progetto che di equo e solidale aveva troppo poco, contratto che non le garantiva nemmeno il diritto di essere malata. Durante quest’esperienza inizia a farsi qualche domanda e inizia anche a fare qualche paragone: “Ho lavorato per un anno in una azienda informatica, quindi orientata esclusivamente al profitto, ed anche lì avevo un contratto a progetto, ma mai, sottolineo mai, mi è stato tolto un giorno di paga per malattia. E ad agosto avevo pure il mese pagato per intero, anche se l’azienda chiudeva quindici giorni per ferie. Qui (nell’emporio di commercio equosolidale) non solo non avevo le ferie, ma non avevo neppure diritto alla malattia”. 

Tutto quello in cui aveva creduto va in frantumi e i cocci sono tanti. E sono tutti i suoi.

Mi ritrovo invece a dover affrontare una delle delusioni più grandi della mia vita, perché ideologica. Non è un abbandono di un amore, non è la rottura di una amicizia. In fondo sai che può succedere e che questo non mette in discussione il valore assoluto dell’amore o dell’amicizia. O forse sì. Forse è proprio come la fine di una storia d’amore, perché non riesco a smettere di credere che il consumo critico e responsabile, il commercio equo e solidale, il voto di portafoglio, l’Altra Economia non possano non essere la via giusta per uscire da questo impasse.

E allora dopo anni passati tra promesse e precariato, attese, speranze spesso vane, delusioni, dolori, sogni infranti si parte, si sfrutta l’occasione per trasferirsi a Londra, imparare bene l’inglese che, le dicono, è fondamentale per lavorare nella Cooperazione. Si parte. Affitta la sua casetta e torna a vivere dai suoi genitori, mette in vendita la sua auto e spera di riuscire a partire per gennaio, che da dicembre c’è una stanza libera a casa di amici di amici quindi perché aspettare? La paura è tanta ma l’esasperazione anche.

La macchina del trasferimento, la stessa che anche io conosco così bene è accesa, quando una mattina, leggendo la sua posta elettronica trova una mail da parte del Ministero della Pubblica Istruzione che la convoca “pern° 1 posto, classe concorso 017, fino alla nomina dell’avente diritto.” E l’insegnamento 017 è proprio Economia aziendale. Claudia è in graduatoria di terza fascia, quindi quella che racchiude laureati non abilitati all’insegnamento ed è in quella fascia da due anni circa: non ci pensava proprio a questa eventualità, non ci sperava più. Trascorre la notte prima della convocazione in bianco, tra la speranza di essere chiamata e quella di non essere chiamata, in un limbo confuso in cui non sa nemmeno lei cosa volere e desiderare davvero.Una beffa del destino così spiazzerebbe chiunque.

Eppure se chiudo gli occhi e lascio fluire il pensiero, mi immagino con i ragazzi, in un’aula, seduta ad una cattedra, con un registro tra le mani. No no, io voglio partire. Però come sarebbe bello diventare professoressa. Non ci pensare, tanto si presenteranno in ottomila.”
Ed invece tocca proprio a lei: dopo anni di promesse e precariato, attese, speranze spesso vane, delusioni, dolori, sogni infranti è arrivato il suo momento. 
In una notte tutto è cambiato. 
Sarà una Prof., avrà il suo registo, i suoi ragazzi, la sua cattedra e il suo lavoro. Almeno per un anno, durata del suo incarico, sarà una Prof. poi si vedrà.

E quindi non parti più? Le chiedo. Per ora no, mi risponde. Mi spiega che si prenderà questa sorta di “acconto sul dovuto” ma che anche se il suo orticello cresce bene continua comunque a vedere il deserto che c’è intorno, questo Paese però le “deve” un’opportunità e lei ha tutta l’ intenzione di prendersela: “Non credevo più che questo Paese potesse restituirmi qualcosa quello che mi è successo non mi fa cambiare idea… sono sempre delusa, amareggiata… ed un figlio in Italia personalmente non ce lo farei crescere quindi volevo andarmene e non tornare.

Poi però di contro attacca con una bellissima descrizione del suo paese, della sua città e delle strade del quartiere che l’ha vista crescere e in cui ha giocato a nascondino: luoghi che ama e che soffrirebbe nel dover lasciare. Ma che, è chiara, lascerebbe comunque se le cose si mettessero di nuovo male e lo farebbe con dolore, certo, ma senza esitare. In un’eterno altalenante binomio. 

E come può il mio amore essere limpido, se è la mia nazione che lo inquina?!
Questa strofa non mi lascia mai, è nella mia testa durante tutta la nostra chiaccherata.
É un mantra. É un qualcosa che mi appartiene così intimamente che quasi a fatico a scriverne.
Come questa storia. La storia di Claudia e della sua emigrazione mancata o forse solo rimandata.

p.s. ho scoperto che mi piace raccontare. E non solo di me. :)


mercoledì 6 novembre 2013

Dal mobbing in Italia alla speranza tedesca.

http://frontierenews.it/2013/11/dal-mobbing-in-italia-alla-speranza-tedesca-storia-di-unitaliana-a-berlino/


Donna, italiana, 36 anni.

Un diploma in ragioneria mai utilizzato del quale non se ne capiscono bene le ragioni, una laurea in Psicologia mai raggiunta. Da sempre ho lavorato con i bambini: da baby sitter ad operatrice ludico-didattica nelle scuole dell’infanzia insegnando teatro.
Un lavoro meraviglioso, prezioso per il solo fatto di poter essere a contatto con i bambini che, nonostante fatica, capricci e arrabbiature, riescono a donare e a insegnare molto, sempre. A modo loro, certo.
Ma gli aspetti positivi e meravigliosi di questo lavoro dopo qualche anno sono stati surclassati daun eterno contratto a progetto che non permetteva un giorno di febbre e dalle incomprensioni con “i grandi”. Ma c’era e andava tenuto stretto.

Accanto a me un uomo che si è sempre districato nelle cucine romane come cuoco. Più o meno soddisfatto, più o meno retribuito ma sempre con contratti sicuri. Poi, tre anni fa, arrivano 7 punti su un dito, il diritto esercitato di mettersi in malattia e la reazione del proprietario del noto e fighetto ristorante romano: due settimane di mobbing ed un licenziamento per esubero di personale. Facile, no?
Gli anni che seguirono ci misero a dura prova e nel frattempo facemmo la conoscenza di Berlino: nuova e vecchissima, un cantiere a cielo aperto, una possibilità, una città terribilmente affascinante. Ammiccante e fredda al tempo stesso, difficile resisterle.
Ma due anni fa non ero ancora pronta e non lo rimpiango.
Non volevo lasciare amici e famiglia e non volevo abbandonare il campo già martoriato ma non ancora completamente abbandonato di quello che era in quegli anni la politica italiana e dove ancora volevo provare a muovermi. Senza vicinanze con nessun partito né ambizioni in quel senso ma spinta dal solo cuore, dalla voglia di civiltà, dall’odio per le ingiustizie alle quali siamo in gran parte assuefatti, istinti primari che mi tenevano sempre con un piede tra piazze e movimenti.
Ma poi, la lotta divenne personale: giornate intere passate a cercare di resistere continuando a fare un lavoro che era diventato frustrante e difficile, un affitto di 1000 euro, condominio escluso, nella periferia Sud-Est di Roma, un marito disoccupato o comunque altalenante, giornate buttate in mezzo al traffico e giorni tutti uguali in cui si aspetta solo che sia sera per trovare rifugio sul divano, lasciando la città che ci rende schiavi e che non riusciamo più ad amare, fuori dalla porta.

E allora, cosa te ne fai di amici e famiglia se tutto quello che riesci a dare loro è senso di sconforto, malcontento, problemi? Forse altrove è possibile.
 Forse altrove può essere migliore. Forse, mi sono detta, dovrei scegliere la qualità del tempo trascorso insieme piuttosto che la quantità. E così abbiamo mollato casa e lavoro (solo il mio, a quel punto) ed organizzato tutto in qualche mese.

Cosa avevamo di certo? I nostri cani, naturalmente. Una macchina per affrontare il viaggio dato che rinchiuderli nella stiva di un aereo non era nostra intenzione, un furgone noleggiato per portare con noi libri, cd, suppellettili, un pezzo di casa insomma, un magazzino dove tenere tutto ciò prenotato per due mesi e una casa-vacanze, più costosa certamente ma per avere la quale non ci hanno fatto nessun tipo di problema, anch’essa prenotata per due mesi.
Due mesi durante i quali, eravamo certi, ci saremmo sistemati. Di mesi ne sono passati quattro, alcune cose non sono andate come avevamo previsto e tra queste, la maggior parte sono andate molto meglio. Mio marito in due giorni e al primo colloquio effettivamente sostenuto (perché al  primo appuntamento per un colloquio di lavoro la proprietaria, italiana, gli ha dato buca) ha trovato un lavoro in un ristorante tedesco. Contratto regolare, paga non alta ma buona, quanto meno per iniziare e considerando che non parla ancora tedesco.
Io invece, come da progetti, mi sono iscritta a scuola: seguo un corso intensivo di tedesco cinque ore al giorno per cinque giorni la settimana. La scuola è la Vhs la più popolare, economica, amata ed odiata scuola tedesca.
Il corso al quale sono iscritta è di integrazione e la differenza è solo nel costo: pago 120 euro al mese invece che 150 e dopo sei mesi, raggiunto cioè il livello B1 si sostiene l’esame, superato il quale ci verrà restituito la metà di quanto pagato. La possibilità di dedicarmi solo allo studio della lingua, di poter aspettare un po’ per cercare un lavoro mi rende felice.

Sto realizzando quello che non ho mai potuto fare in Italia e cioé stare un periodo senza lavorare per fare qualcosa per me, per investire, per provarci, per migliorarmi.
Nel frattempo mi godo lo stupore di scendere con il tram tutte le mattine ad Alexander Platz, mi godo la funzionalità dei mezzi di trasporto, le nuove amicizie, angoli più o meno conosciuti che giorno dopo giorno diventano familiari e no, non lo avresti detto mai.
Tutti i giorni penso all’amore che ancora vive in Italia: famiglia, amici, mi mancano sempre. Mi manca un pezzo. Ma di certo, sono più felice ora pur senza un pezzo, di prima quando quel pezzo ce l’avevo e non potevo goderne.
Quello che di certo è cambiato è la sensazione che ho, appena sveglia la mattina, di avere la possibilità di fare qualcosa.
Qualcosa per me, qualcosa che mi piace, qualcosa che forse non mi riuscirà ma posso provare. Quello che non potevo più fare in Italia.

domenica 3 novembre 2013

Arrivederci Roma, Berlino chiama. (un'intervista per Italiansinfuga)

http://www.italiansinfuga.com/2013/11/03/arrivederci-roma-berlino-chiama/


Cosa facevate in Italia?

Io: un diploma di Ragioneria mai utilizzato e del quale ancora fatico a capirne le ragioni dell’esistenza.
Una laurea in Psicologia mai conseguita, un lavoro svolto sempre nell’ambito dell’infanzia: da baby sitter ad operatrice di ludoteca, ad operatrice nei centri estivi, poi coordinatrice sempre negli stessi.
Negli ultimi 6 anni operatrice teatrale nelle Scuole d’Infanzia, un lavoro bellissimo e molto faticoso divenuto quasi impossibile a cause delle enormi distanze che c’erano tra una scuola e l’altra a Roma, nella città in cui ho sempre vissuto e lavorato, e di conseguenza l’enorme spesa per la benzina che ultimamente ha toccato prezzi proibitivi e l’assoluta necessità di avere un’automobile per trasportare ogni giorno tantissimo materiale.
Lavoro che ho lasciato con dispiacere per l’enorme fortuna di poter lavorare con i bambini e con un grandissimo sospiro di sollievo pensando a tutto il resto.
Poi c’è mio marito, uno di quei diplomi che non ti penti di aver conseguito e che da subito ti dà lavoro: istituto alberghiero.
Anni di sicuro ed onesto lavoro nelle cucine romane quando tre anni fa un incidente sul lavoro (7 punti ad un dito), la legittima decisione di usufruire del diritto di essere in malattia e la reazione del proprietario del locale che non gradendo questa scelta, dopo settimane di mobbing gli presenta una lettera di licenziamento per “esubero di personale”.
Gli anni che seguirono furono, per lui, una continua ricerca di un posto dignitoso e per me, continui tentativi di sopravvivere a contratti a progetto e ad un senso di profonda frustrazione.
Tentativi che, evidentemente, hanno avuto scarsi risultati.
Perché l’idea di partire e perché Berlino?
Eravamo già stati a Berlino due volte perché il fratello di Andrea ha vissuto lì per un anno e mezzo ed ora è da un anno e mezzo a Brema, rimanendo quindi in Germania.
Affascinati, colpiti, innamorati da questa capitale europea così versatile e diversa da tutto quello che avevamo avuto modo di visitare o vivere fino a quel momento.
E così, quasi per scherzo progetti, idee, pensa se un giorno ci veniamo a vivere davvero… ma gli affetti mi tenevano fermamente ancorata a Roma.
E non solo loro, dopo anni di attivismo politico, senza aver mai militato in un partito ma nonostante questo cercando ogni giorno di capire, combattere, provare a cambiare qualcosa, con le piazze, i movimenti, le contestazioni, l’idea di abbandonare il campo, mi faceva star male.
Ma ormai rimanere in Italia era diventata una sofferenza quotidiana, una lotta quotidiana per la sopravvivenza.
E cosa te ne fai della vicinanza fisica con amici e famiglia quando sei talmente svuotato da non poter dare loro niente di bello?
Abbiamo scelto di provare, abbiamo puntato alla qualità del tempo da trascorrere insieme, piuttosto che alla quantità.
Come state facendo per imparare il Tedesco? Quanto è difficile?
Per ora Andrea non lo sta studiando, lavora in un ristorante in Potsdamer Platz dove tutti parlano anche inglese, se come sembra in inverno il lavoro calerà un po’ ne approfitterà per seguire anche lui un corso.
Io invece seguo un corso intensivo alla Vhs Volkshochschule, la più famosa, conosciuta, popolare ed anche criticata scuola di lingue tedesca.
Il mio corso è strutturato in 5 incontri la settimana, ognuno della durata di quasi 5 ore, una vera e propria scuola che, a mio avviso, può frequentare solo chi non ha un lavoro di molte ore, vista la mole di lavoro che c’è da fare anche a casa.
In 6 mesi si raggiunge il livello di B1 che è il requisito minimo per accedere a qualsiasi posto di lavoro ed anche per iscriversi ad un Ausbildung (un corso di formazione lavorativa) che, probabilmente è quello che vorrò fare dopo.
Con il corso integrativo che sto seguendo io e che al quale possono accedere i cittadini europei, alla fine dei 6 mesi di scuola si sostiene l’esame di livello, superato il quale si riavrà indietro la metà di quanto pagato fino a quel momento e cioè 120 euro al mese, 30 euro in meno rispetto ai 150 al mese che si pagano normalmente.
É difficile? Sì, il tedesco è indiscutibilmente difficile. Ma anche affascinante, ricco, chiaro, per assurdo. Una lingua che difficilmente permette fraintendimenti. Una lingua che non vedo l’ora di poter utilizzare al meglio e che probabilmente necessità di passione per essere conquistata.
Che lavori avete trovato? Quando è stato difficile?
Il nostro piano era trovare subito un lavoro per Andrea, speravamo che come cuoco avesse più possibilità e così è stato.
Con un annuncio messo su Ebay dall’Italia, ha trovato lavoro due giorni dopo il nostro arrivo, lo hanno aspettato, lo hanno voluto, proprio come dovrebbe essere in un mondo giusto.
Ristorante tedesco, contratto regolare. Dopo due anni di tormenti patiti a casa.
Io invece, come da piano, sto dando la priorità allo studio della lingua che, per tutti i lavori che ho sempre svolto e per predisposizione caratteriale, mi è assolutamente indispensabile: non potrei mai pensare di vivere in un posto dove la gente che parla sul bus emette dei borbottii indefiniti.
Per ora arrotondo, ma davvero raramente, con delle pulizie retribuite 12,50 nette l’ora.
Quali sono state le difficoltà emotive dei primi tempi? Come le avete superate?
La prima volta che ho pianto è stato quando mio padre, che insieme a zio ci ha accompagnati in quello che chiamammo il viaggio della speranza, tornò a Roma.
Uno sguardo, una lacrima scorta all’angolo dell’occhio, un occhiale da sole inopportuno indossato solo per difesa, un bacio sulla guancia e via…noi siamo così di famiglia, non ci piacciono i saluti. Ci distruggono anzi.
Non appena si è chiusa la porta mi sono pianta tutte le lacrime che tenevo qui, lacrime di stupore per il passo che davvero avevamo fatto, lacrime di paura per quello che ci stava aspettando, di gioia per avercela fatta.
Lacrime e lacrime.
Ed è stato bello, piangermele tutte.
Ogni giorno è come se mi mancasse una parte ma ogni giorno mi sveglio più felice e serena di quando quella parte era con me.
Si supera pianificando le visite, contando i giorni che mancano al prossimo aereo che ci porterà qui un pezzo di cuore.
Si supera coccolando gli amati cani che sono venuti, naturalmente e non senza difficoltà, con noi.
Si supera scrivendo tanto ed anche tenendo un blog www.berlinochiama.blogspot.it
Primo bilancio del vostro trasferimento?
Assolutamente positivo.
Economicamente parlando stiamo vivendo con un lavoro solo quando fino a giugno, a Roma, sopravvivevamo con due.
Siamo in una città piena di vita, che trasuda storia da ogni centimetro. Un cantiere a cielo aperto, un laboratorio immenso per sperimentare qualsiasi cosa si abbia voglia.
Ci sentiamo gratificati, degni, meritevoli, accolti e compresi.
Abbiamo davanti lo spettro del duro inverno da affrontare ma ci sentiamo assolutamente preparati.
Sono consapevole che Berlino non sia il paradiso, la disoccupazione aumenta, trovare un alloggio è molto difficile.
So anche di persone che ci hanno provato senza farcela così come invece so di persone felicissime e che si sentono molto realizzate ma questo fa parte della vita, immagino.
Che sentimenti provate verso l’Italia?
Sarebbe facile rispondere rancore ma purtroppo non sarebbe neanche così lontano dalla realtà.
Una politica che ho sempre amato verso la quale non riesco più a guardare se non provando dolore.
E non solo nei confronti di chi ha ridotto il paese in quelle condizioni ma anche nei confronti del nuovo che è avanzato per citare un vecchio adagio e che ha ricalcato perfettamente i modelli di quel vecchio che tanto diceva di voler combattere.
Pensare alla politica e alla situazione italiana in generale è sentirsi in un vicolo cielo, è sentirsi soffocare.
É chiedersi, come ho fatto a sopravvivere lì così a lungo?

domenica 1 settembre 2013

Frustrazioni linguistiche ed un Erasmus 10 anni dopo.

Quaderni, foglie quasi gialle, calendari, diari, foto da stampare dell'estate, no questo forse  solo anni fa.
 Programmi, corsi, buoni propositi, Capodanno insomma.
Settembre è sempre stato Capodanno per me.
Nella mia precedente vita però. Non ora, non qui (cit.)
Qui è tutto in corso d'opera, qui è quasi autunno, vado a scuola da un mese e tra tre giorni finirà il primo modulo ed inizierà il secondo, ci sono ancora belle giornate ma intervallate da giorni come quello di oggi in cui nuvole e vento ti danno la percezione di quello che succederà per i prossimi, lunghi, mesi.

E per ora l'unico dispiacere è la bicicletta, con la quale sto facendo pace e che mi piace da morire: l'idea di unire un mezzo di trasporto ad un'attività fisica mi esalta.
E fino a che il tempo me lo permetterà, ne approfitterò.

Nella mia vita precedente, domani sarebbe con molta probabilità il primo giorno di lavoro, una ludoteca o dei giorni trascorsi a pubblicizzare i laboratori di teatro, tra il traffico che si chiama sono tornati tutti e un acquazzone che odora ancora di estate. E invece domani m i  aspetta una nuova scuola, con lo stesso gruppo già formato e molto affiatato e le insegnanti fantastiche.
Gruppo di tutte le età e nazionalità nel quale, come è ovvio, si è formato un sottogruppo di persone più affini per età, gusti, voglia di fare nuove amicizie e magari rilassarsi dopo scuola bevendo qualcosa o fumando una sigaretta.
E nel confortevole mezzo di questo gruppo di persone c'è un bel posto pure per me, che mi sembra di conoscerli da tempo, che mi sembra di conoscere le loro paure, i loro desideri, perplessità.
Che mi sembra di conoscere la loro voglia di comunicare, capirsi, raccontarsi, vivendo questo strano periodo in cui siamo adulti ma, per qualche strano motivo, possiamo prenderci il lusso di vivere come ragazzini.

Ognuno con le proprie famiglie, mariti, mogli, figli, pensieri, preoccupazioni, nostalgie, dubbi.

L'unica frustrazione è quella linguistica, perchè questo inglese che fa da collante non lo conosco così bene da permettermi di affrontare un certo tipo di discorsi, intimi, delicati, importanti.

Come quando la ragazza israeliana mi stava raccontando dei suoi due anni di servizio militare obbligatorio e della sua repulsione per le armi. Ecco lì ho ringraziato la mia empatia per aver in qualche modo sopperito alla mancanza di fluidità di parole. Che poi, a ben pensarci, forse è stato anche meglio così. Perchè su quello che ho letto nei suoi occhi o sul modo di saltare in aria per un rumore apparentemente stupido, su quello non ci sarebbe molto da dire.
Per tutto quello che è al di sotto di questo livello di importanza invece, ci si capisce benissimo. Avete mai desiderato tornare a scuola ma con la testa di adesso?! Io sì.
E si è avverato.

lunedì 12 agosto 2013

Vhs

La borsa é pronta e tra un po' vado a dormire che domani mi aspetta una levataccia.
É che ho iniziato la scuola, da giovedì scorso per la verità.

L'impatto è stato splendido: l'insegnante è una giovane e simpatica tedesca, alta alta e secca secca, caschetto nero ed occhialone da nerd che ha iniziato a parlare, anche se molto piano, da sempre in tedesco, i compagni di corso hanno in media la mia età, molti più giovani, qualcuno più grande, quasi tutti qua da qualche mese, qualcuno addirittura da due anni.
Italiani, Bangladesh, un'Israeliana, Spagnoli, un Cipriota, un'Americana, un Sudafricano, una Bulgara, una Polacca, un'Albanese, una Ceca, un meltin pot di colori, lingue, dialetti, usi ed abitudini, tutti lì con la stessa motivazione: imparare il tedesco.
Impresa, si sa, tutt'altro che facile ma assolutamente indispensabile. Altro che si vive pure con l'inglese.
 La scuola è la Volkshocschule di Wedding ed è la scuola del popolo, per intenderci, quindi economica ma, da quello che leggo e da quello che vedo molto seria e funzionale.
Il corso che seguo io è intensivo quindi 5 giorni a settimana, per 5 ore al giorno, che poi , sono 4 ore e mezzo se togliamo la mezz'ora di pausa. Quando esco da scuola ho un mal di testa di quelli da concentrazione: passo tutta la mattinata attenta a non perdermi una parola, un significato.
Questa per me è un'occasione preziosa, per la prima volta nella mia vita posso permettermi un periodo senza lavorare perchè, ebbene sì, qui si può vivere in due (in 4 visto che i nostri cani mangiano carne, pesce, verdure ecc.)  con un solo stipendio e posso quindi dedicarmi allo studio di questa lingua che, sono certa, ci faciliterà molto le cose da queste parti.

Il bus ogni 10 minuti sotto casa, le coincidenze perfette, il caffè, la lezione, la pausa tutti insieme in bakerei, al ritorno il Bretzel al volo e via a casa dai cani. E poi aspettare Andrea se ha il turno del pranzo oppure organizzarmi la serata tra una passeggiata al lago, qualche film, il mio libro. E i compiti a casa.

Tutte cose semplici che mi fanno sentire fortunata. Terribilmente.