lunedì 15 dicembre 2014

Vent'anni di ferite.


La prima frase l'ha scritta una mia compagna di corso, Federica, durante un'esercitazione. Poi mi è stata assegnata per inserirla nel contesto di un mio racconto.
Il primo pensiero è stato: "e adesso che ci faccio con tutta questa vita?".
Ecco cosa ci ho fatto. 


L’auricolare blu pende dalla tasca della sua giacca a quadri, io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Gaber si mescola alle voci e ai suoni che la circondano. Sorride di nuovo, che strano accostamento: Gaber a Berlino.”


Chiudi quel diario, smetti di rileggere quelle vecchie parole. Avevi solo 20 anni e non capivi niente:  non capivi le persone, non capivi la musica, né tantomeno le città.
E soprattutto non capivi le ferite, perché Berlino è quello: Berlino è una  citta ed è anche una ferita.  Una ferita che l’ha attraversata e la attraversa ancora da parte a parte, ma tu a vent’anni non lo sapevi.

Le  ferite però  sapevano un po’ di te, ti conoscevano, a loro piacevi. E a te piacevano loro. Seguivi con curiosità la lama che si faceva rossa, trattenevi il fiato durante l’attimo in cui i lembi della pelle diventavano bianchi  per poi d’improvviso ricoprirsi di sangue. E col sangue giungeva anche lo stupore. Perché ogni volta ti sorprendevi di quanto rosso avessi dentro.

Lo facevi solo per lui, era la tua esibizione per un unico spettatore mai pagante, lo facevi per mostrargli tutto di te, anche il rosso denso che ti riempiva. Per mostrargli tutto quello che non gli avresti mai dato.

Volevi solo cavare da quegli occhi neri ed immobili un lampo di una qualsiasi luce. Ma le sue orbite erano scure e quello che contenevano appariva avido e vuoto, così vuoto che ogni volta che ci cadevi dentro ne riemergevi a fatica e lentamente riprendevi piano a respirare. 
Esiste qualcuno che ha dovuto imparare a respirare? Tu sì, di certo.

Ed  ogni volta che il sangue perso era troppo, perdevi anche i sensi e con loro il senso di quello che stavi facendo.  Ma quegli occhi erano l’unico vuoto da cui valeva la pena farsi riempire.

Ed  era allora che il fiato se ne andava lasciando il posto alla paura e con lei anche alla smania stupida di non voler  morire, di rimanere aggrappata a quella vita che ti ostinavi a voler scacciare via lontano da te.

Perché avevi solo vent’anni e non sapevi come vivere e così le ore, i giorni, i mesi te li lasciavi scivolare addosso, come l’acqua sotto la doccia, come delle mani nuove  ed appena conosciute lungo la schiena.

Hai chiuso quel diario? Non ancora? Fallo, per favore. Ricordare la te di tanti anni fa, quella che si sentiva libera vagando senza metà per la città,  che costeggiava il muro e lo faceva sfiorandolo con le dita come si fa con una ferita, provando ad immaginare il momento esatto in cui è stata inferta, la te che viaggiava sui pullman di notte dispiaciuta dal non riuscire a provare paura. Ricordarla, non ti aiuterà a sopravvivere a questa notte.

Stanotte sono tornati i fantasmi e il tuo spettatore ha acquistato un altro biglietto, forse l’ultimo
“Sono a Berlino, vediamoci”, ti ha scritto.

Ma tu lo sai che dell’altra vita sono rimasti solo piccoli e patetici segni orizzontali sugli avambracci e ci potresti giurare, il vuoto nero dei suoi occhi. 

Chiudi quel diario, perché il resto, tutto quello che i tuoi vent’anni riuscivano a contenere, non esiste più.
E’ un fantasma quello che torna da te sicuro di trovarti immutata ed immobile, pretendendo, dopo  tutto questo tempo, di riempirti ancora di vuoto. Come è possibile, se tu cambi ogni ora?

Chiudi gli occhi, trattieni il respiro, aspetta il bianco, sorridi.
Il tuo sangue ha cambiato colore, lo avresti mai detto?



lunedì 8 dicembre 2014

Esce il rosso.




Esce il rosso, entra il blu.


Così si sarebbe salvata questa volta e a differenza di altre, è stata da subito certa che sarebbe accaduto.
Non sarebbe morta per questo, sarebbe finito tutto presto e il suo cuore non avrebbe  smesso di battere ma dentro di sè sentiva anche che quello che le stava accadendo, l’avrebbe trasformata per sempre. Solo non sapeva bene in cosa.

Entra il blu, esce il rosso.

Respira. Inspira ed espira. Vaffanculo. Sto morendo.

No, è la natura.” 
No, la natura avrebbe dovuto pensarci prima e fermare questo cuore che si ostina a battermi nella pancia” pensa.

Anzi dice a voce alta e strozzata, mentre i lunghi capelli neri, divisi in ciocche sudate e sporche le cadono lungo il volto pallido e smunto.
Le labbra, rese ancora più sottili dal dolore, si contraggono in una smorfia agghiacciante. La sua prorompente fisicità per la prima volta le rema contro: sente all’improvviso tutto il peso di avere un corpo che non cede. Muscoli, ossa, pelle capaci di sopportare torture indicibili.

Ora più che mai vorrebbe essere una di quelle ragazze fragili e delicate che svengono per un nonnulla. 
Non puoi svenire, nessuno è mai svenuto partorendo”  pensa.

Esce il rosso, entra il blu.

Solo che lei non sta partorendo, non sta iniziando niente,  lei sta solo finendo.

Sente che il terrore di vedere quella creatura mostruosa uscirle dal corpo la sta paralizzando ma non può farci nulla. E’ per terra, sul pavimento freddo e sudicio di una stanza adibita a prigione con la pareti fatte di vetri antiproiettile, ad aspettare di finire. Perché in certi momenti non c’è nient’altro da fare se non aspettare che finisca e al massimo sperare che succeda il più in fretta possibile.

Mesi prima chiese aiuto alla vecchia Beth e lei glielo negò. La implorò di aiutarla e lei le rispose con un no quasi ghignante, lo fece con mal celata crudeltà, senza fingere pietà umana. Erano accanto al monitor del ginecologo quando le confermarono che 
sì, c’è  qualcosa che non va e no, non faremo nulla perché questo non accada. Questo è quello che succederà, sia chiaro, nessuno ti aiuterà a finire.

Era contro le regole della  Comunità, quella prigione senza celle nella quale è costretta a vivere da quando il Mondo è cambiato. E con il Mondo le persone e il modo in cui si provano a tenere a bada i lati più oscuri e malvagi.

Il Padre della Comunità li raggiunse nella stanza del Medico, come avrebbe fatto un qualsiasi premuroso papà e lo fece per confermarle che il bambino sarebbe nato lo stesso.
Anche senza cervello, anche morto o con gravissime malformazioni fisiche e psichiche ma sarebbe nato e 
sarebbe rimasto a far parte della loro Famiglia “ 
e nel pronunciare questa parola la bocca si allargò in un sorriso senza vita, 
con o senza il tuo volere”.

Il guizzo di gioia che vide negli occhi stretti del dottore e dal modo in cui si rivolsero complici alla vecchia Beth, le fece capire che li aveva resi tutti felici. Il tentativo, non voluto e mal riuscito, di essere umano che aveva in grembo era la loro più grande soddisfazione, erano fieri di lei ed eccitati all’idea di avere altra carne da martorizzare e su cui sperimentare.

I primi tempi chiese aiuto, implorò, fuggì via due volte e per due volte fu ripresa e riportata indietro. La punizione fu sempre leggera per via del suo stato interessante.
La lasciarono entrambe le volte in isolamento con solo cibo ed acqua, senza rendersi conto della grande opportunità che le stavano donando: pensare con calma e decidere le prossime mosse, aiutata dagli effetti delle deprivazioni alla quale era sottoposta.

La terza volta infatti il tentativo di fuga andò a segno: rubò i farmaci abortivi e si nascose nell’ ultima stanza del sotterraneo, abitata solo da topi grossi come gatti. Era certa che non l’avrebbero sentita neanche se avesse urlato. Era certa anche del fatto che lo avrebbe fatto.
Poi, se pure qualcuno l’avesse trovata, si sarebbero dovuti accontentare di guardare da fuori lo spettacolo ma dentro no. Aveva preso tutte le chiavi nel cassetto della scrivania di quel folle che la obbligava a chiamarlo Padre e quindi dentro non sarebbero mai riusciti ad entrare.

Eccola qui: ci siamo, ora avrebbe fatto uscire quel tentativo di essere umano dal suo corpo e non avrebbe atteso un giorno in più, non avrebbe permesso che crescesse di un altro millimetro e che iniziasse a somigliare ad un bambino.

E poi?
E poi non le importava di cosa sarebbe accaduto dopo, di certo non avrebbe più contribuito a quella follia. Forse l’avrebbero uccisa o forse, se tutto sarebbe andato come lei aveva immaginato, sarebbe stata lei ad uccidere loro.
Improvvisamente non le sembrava più difficile, anzi le sembrava la cosa più semplice del mondo, era preparata.
E’ per quello che ora doveva conservare un po’ di forze e non perdere di vista l’obiettivo. 
E fare in fretta. In fretta. Tutto doveva finire velocemente.
Inspira, espira.

Esce il blu, entra il rosso.

Nel tentativo disperato quanto inutile di smettere di soffrire, fa movimenti inconsulti e sconnessi. Gratta forte con le mani contro il muro, le salta l’unghia dell’indice destro. Sangue si unisce a sangue, ma c’è quasi.

Entra il blu, esce il rosso.

Poi d’improvviso il dolore scompare e una cascata di sangue, urine, acqua e materia organica viene via dal suo corpo. Lei non sente niente, non è nemmeno certa di avere dentro di sè un cuore in grado di battere ancora. Di certo, a non esserci più è il suo tentativo di essere umano.

Senza che, all’improvviso, niente nel suo corpo le faccia più male si mette a cercare tra quel rosso scuro e denso.

Eccolo qui, eccola qui, non lo sa, non le importa. Non le deve importare ora.
Trova un piccolo braccio, una testa smisurata e un accenno di gambe, sta tutto in una mano e lì lo tiene. 
Per qualche minuto o forse qualche ora, rimane seduta a terra, con la schiena contro il muro e le gambe larghe, gli occhi chiusi da cui cadono lacrime bollenti.

Si vede col suo bambino sano e forte, correre via. Lo sente rimbalzare contro la schiena forte, fuggendo lontano da quella follia mascherata da speranza. Si vede mentre si inoltrano nel bosco, liberi.
Riapre a fatica gli occhi, l’esserino non respira. Forse non respira più, probabilmente non ha mai respirato. Taglia il cordone ombelicale come se non avesse fatto altro nella vita, lo avvolge in uno straccio lurido e baciando il fagotto grottesco gli promette che lo avrebbe portato lontano da quel posto, non lo avrebbe seppellito lì.

Con folle lucidità lo infila nello zaino, con la stessa delicata cura che da piccola metteva nel sistemare il suo gattino nella cesta, assicurandosi sempre che si sentisse comodo tra gli scampoli di stoffa e la lana calda, così in quello stesso modo ora chiude lo zaino e se lo mette sulle spalle.

Si sciacqua tra le gambe anestetizzate dall’improvvisa assenza del dolore, si infila i pantaloni sporchi e nel farlo guarda istintivamente nell’angolo della stanza. Scopre sollevata che lei non se n’era mai andata, lei era rimasta lì silenziosa e fedele a guardarla, ad aspettarla.

La sua scintillante Katana era ancora lì.

Sul volto disteso come non era ormai da mesi, restano evidenti solo i segni  di occhiaie profonde che sapeva non l’avrebbero mai più lasciata.
Sarebbero rimaste lì, sotto gli occhi e sopra gli zigomi a ricordarle quelle ore di rosso e blu. Quello che era prima e quello che era invece diventata.

Poi all’improvviso giunge l’istante in cui tutto le è chiaro.

Vede tutto, vede la nuova forma che aveva assunto uscire con calma dalla stanza umida e sporca. 

Salire le scale, percorrere corridoi pieni di pozze putride e scarafaggi, svoltare angoli che avrebbero dovuto farle paura, se solo fosse ancora in grado di avere paura di qualcosa e poi entrare nella stanza del medico.

Fu proprio quello l’istante in cui decise che la vecchia Beth l’avrebbe lasciata per ultima. Stavolta l’avrebbe aiutata, l’avrebbe costretta a farlo. 

Li avrebbero uccisi tutti e non lo avrebbe fatto da sola, lo avrebbero fatto insieme.

domenica 30 novembre 2014

L'eco caldo del prossimo gennaio.


Pur di non ascoltare il rumore evocativo di un'ipotetica strada da percorrere, ti stordisci di musica.
Quel rumore, per intenderci, che producono i tuoi piedi che uno dopo l'altro si sfiorano, si avvicendano al posto di comando, lottano per emergere da cumuli di foglie con la sola ostinata intenzione di procedere. Piedi piccoli e testardi che hanno la discutibile missione di portarti in luoghi più o meno conosciuti. Spesso semplicemente a casa.
Musica vecchia, musica nuova, musica vecchia ascoltata con orecchie nuove. 
Qui ed ora, come quel tatuaggio che nessun inchiostro ha mai inciso sulla tua pelle.

Eppure oggi, tra il cielo grigio e nessun programma, ti è balzato in mente che tra un mese sarà gennaio.

Tra un mese sarà un anno da quando il mondo è cambiato, il tuo mondo, quello dentro, quello che a volte sembra essere nella testa di tutti e altre invece è sconosciuto persino a te stessa.
Un anno da quando camminavi per luoghi apparentemente indifferenti che eri invece costretta dagli eventi ad odiare, un anno dai giorni trascorsi con gli occhi socchiusi per non permettere a tutta quella normalità di filtrarti attraverso e di divenire termine di paragone con l'anormalità mostruosa nella quale eri precipitata. O che ti era precipitata dentro.

Un anno da quel vuoto che campeggiava al centro del tuo corpo: dal seno alle cosce avresti potuto sentire l'eco dell’attesa.
L’eco è sparito e al suo posto è tornata la consapevole e calda presenza del tuo esserci. E del tuo percepirti.

Tra un mese festeggerai questo primo anniversario e lo farai brindando alla tua decadente bellezza, al tuo non avere età, sogni, progetti. Alle borse sotto agli occhi e alle dita tra i capelli.
Alle parole scritte, a quelle dette e quelle che rimarranno per sempre incastrate in un limbo di confusione.
Come quando apri la bocca e la voce non esce o esce troppo in fretta o modulata male.
Festeggerai tutto quello che, in qualche modo, hai pensato di dover cambiare.
Festeggerai il fatto di non esserci riuscita.

sabato 29 novembre 2014

Un esercizio non riuscito


Poggia le tempie sulle mattonelle bianche del cesso.
Spera di ritrovare così quella lucidità che ha perso ormai da qualche ora.
Si siede sul water ma non per fare la pipì. Ha tenuto anche i pantaloni ma ha bisogno di fermarsi un attimo.
Guarda davanti a sè: gli adesivi attaccati alle pareti le danzano davanti agli occhi come piccoli folletti neri e spiritati. Chiude gli occhi.

"Andatevene a fanculo" gli dice "io ho bisogno di tornare".

Con movimenti che è certa siano lentissimi, apre il rubinetto bianco di calcare e lascia scorrere l'acqua, poggia le mani sul bordo del lavandino e si guarda allo specchio senza in realtà vedersi.
"Hai dimenticato gli occhiali" si dice.
"Tu non hai gli occhiali" si risponde. E ride.

Ride in compagnia della sua solitudine mentre prova a mettersi a fuoco: sfatta, sconvolta, come una bomba appena esplosa.

È successo ancora. Facciamo presto, s'era detto ed invece eccola di nuovo nel bagno lurido di un locale a lottare contro il vomito che poi alla fine, se lo assecondasse, non sarebbe meglio?

Ma lei non ha mai amato vomitare. Non ha mai amato nemmeno sentire le budella rivoltarsi in cerca di via di uscita. Eppure.

La musica la raggiunge ormai ovattata e lontana. Le luci non l'aiutano, sottolineando il trucco colato come quello di una star in declino.
Avanzando faticosamente di dieci lunghissimi centrimetri, le sue mani raggiungono l'acqua e con un gesto automatico balzato fuori da chissà quale cassetto della memoria, si bagna i polsi. 
"Questo ora lo metti nel cassettino della memoria", le diceva suo padre, "e quando ti servirà tonerà fuori."
Stavolta dal cassetto è balzata fuori lei da piccola che finiva di correre e scatenarsi e poi sua madre, pronta ad inibire la sua voglia di bere acqua ghiacciata, con un noioso quanto legittimo: "prima bagnati i polsi!"

"Sì mamma, me li sto bagnando, vedi? Ma ho la sensazione che non cambierà di molto le cose. Non stavolta" Sorride di se stessa, prigioniera del suo non avere limiti, in un cesso bianco. 
La principessa, il drago, la torre. Lei, ancora lei ed un cesso.

Poi si butta un po' d'acqua sul viso e prova pateticamente a rendersi di nuovo presentabile: p
rende la carta grigia che staziona sul davanzale polveroso da chissà quanto tempo. Si tampona il volto ormai livido
Passa la carta anche sulle occhiaie, cercando di cancellare il nero della matita che indisciplinato è uscito dal bordo degli occhi ed è andato a poggiarsi alla perfezione sul rigonfiamento naturale che staziona fedele sotto i suoi occhi, anche nei momenti migliori delle sue giornate.
Respira profondamente, getta un ultimo sguardo allo specchio pensando che almeno i capelli non sono poi messi così male, mette la mano sulla maniglia e la stringe "Non può essere così difficile, esci di qui."

lunedì 24 novembre 2014

Scritturoterapia. Un lunedì piovoso.



Abbiamo ascoltato un brano e no, durante l'ascolto non potevamo scrivere. E io mi sono sentita le mani bruciare, il volto avvampare e il cuore sobbalzare in petto per il divieto imposto.
Non scrivere.
Un treno che sbuffa, che parte, che aspetta. Ferro. Kilometri. Viaggi senza senso. 

-No, non puoi, aspetta. Non puoi segnarti niente, anzi non prendere proprio la penna in mano. Aspetta-
Poi l'abbiamo ascoltato di nuovo e lì sì, lì abbiamo potuto scrivere.

E io ho scritto questo.



Nina trascorreva ore intere su treni che non portavano mai da nessuna parte.
Aveva poco con sé ma quel poco era tutto il suo necessario.
Arrivava alla stazione della sua città in orari imprecisati del giorno e della notte, prendeva un thè, leggeva qualche pagina del libro che aveva in borsa e controllava allo specchietto gli occhi sempre sfatti. 


Poi, come in un rituale senza senso alcuno, si metteva sotto al tabellone luminoso degli arrivi. Si spostava poi verso il binario che per primo avrebbe accolto quel fiume deforme di carne, pensieri ed aspettative.
Li guardava sistemare con cura giacche e bagagli, qualcuno si tastava vigorosamente per assicurarsi di non aver abbandonato nulla sul sedile ancora caldo dopo ore di stretto contatto.
Molti avevano gli occhi lucidi. Avete idea di quanta gente pianga lungo i binari?


Poi arrivava il suo turno, si spostava sotto il tabellone delle partenze, chiudeva gli occhi, li riapriva e coglieva la prima meta apparire luminosa ai suoi occhi.
Torino.

Via.

Il biglietto lo faceva sempre a bordo. Il procedimento con cui sceglieva il posto invece non era altrettanto casuale, c'era uno studio dietro, un'analisi accurata che non starò qui a raccontarvi.

Una volta giunta al suo posto si metteva comoda ed iniziava a scrivere.

Scriveva di quello che le sarebbe accaduto una volta giunta.
Senza nessun appuntamento, incontro, destinazione.
Una volta scrisse dell'incontro con una vecchia antiquaria con la quale avrebbe parlato degli oggetti e del senso di possesso che scatenano in noi.
Delle storie, spesso più noiose di quanto vorremmo immaginare, di chi li ha avuti.

Poi ci fu un uomo, al quale scrisse -avrebbe donato il suo cuore, se solo ricordasse dove lo aveva cacciato. 
E via dicendo, personaggi inesistenti che l'aspettavano da qualche parte una volta giunta alla stazione.

Poi, finito il viaggio, rimetteva le sue cose nella borsa e scendeva al binario: lo sguardo che lanciava intorno a sé era sempre di sottecchi. Era incuranza e mai speranza.
E poi thé, libro, tabellone.

giovedì 30 ottobre 2014

Alexanderplatz




Si incontrarono nella stazione della metro affollata. Non avevano un appuntamento, non dovevano vedersi, si incontrarono per caso, per un improbabile caso, viste le dimensioni della città.

Lui la osservò per qualche secondo, la guardò passare, gli sembrò che stesse parlottando da sola, ah no forse canticchia, ha le cuffie pensò, poi la vide sorridere e subito tornare seria a guardare le persone in quel modo strano: che un po’era attraversarle con lo sguardo e un po’ piazzare gli occhi fin dentro le viscere.
Si avvicinò e le mise una mano sul braccio, lei si voltò ferocemente e gli piantò quei suoi occhi vuoti proprio dentro, ma quello sguardo durò un solo secondo perché poi lei pianse.

Pianse continuando a guardarlo, pianse senza muovere  di un millimetro la faccia, senza fare nemmeno una smorfia: gli occhi si fecero larghi e bagnati e le lacrime scavalcarono il bordo sfumato di nero e rotolarono giù.
Lui non le chiese niente e non sembrò nemmeno preoccuparsi ma sorrise e le disse soltanto “hai tempo per un caffè?” poi si incamminò senza aspettare il suo sì ma pensando che se solo fosse stato capace di amare, avrebbe voluto amare lei.
Avrebbe voluto amare quello strano essere che sembra sempre capitato lì per caso e lì era ovunque, che piange e ride in quel modo snervante.

Quell’essere che vorrebbe scuotere forte per sciogliere i suoi pensieri annodati che si vedevano pure da fuori tanto erano aggrovigliati, solo che poi non avrebbe saputo che farsene e allora niente, meglio lasciarli lì dentro, annodati ed innocui.

Lei  lo seguì ma non si tolse mai le cuffie e lui pensò che avrebbe trovato maleducato e sconveniente il gesto se fosse stato fatto da una qualsiasi altra persona ma non da lei.
Perché lei aveva i suoi tempi, le sue emozioni con cui combattere. Lei poteva farlo.
Lei poteva camminargli accanto per ore senza sentirsi in dovere di dire qualcosa solo per spezzare quel silenzio che imbarazza.

E così camminarono. Si camminarono accanto, camminarono uno avanti ed una indietro, camminarono lentamente e poi accelerarono il passo senza dirselo apertamente ma riuscendo a mantenere sempre la stessa distanza.
Poi arrivarono sul ponte e sempre senza dirselo si fermarono.

Lei si tolse le cuffie e le infilò in borsa e lui potè sentire il suo odore e pur sapendo che non l’avrebbe mai toccata, provò per un attimo la curiosità di conoscere la trama della sua pelle, di sentire il caldo sotto i suoi vestiti, il caldo tra le sue gambe.
Che facciamo?” chiese lei chiudendosi una sigaretta. “Guardiamo il fiume” rispose lui distogliendosi controvoglia dai suoi pensieri.





venerdì 17 ottobre 2014

4uattro

[Era un lunedì sera, i miei piani erano quelli di rimanere le solite due ore nella stanza durante il corso di scrittura ed invece sono stata spiazzata dalla consegna dell'esercizio che è stata "uscite e guardatevi intorno poi tornate dentro e scrivete".
Io ho fatto un giro di palazzo e mi sono ritrovata a pensare a quanto grandi siano i palazzi a Berlino, più grandi di Roma e di conseguenza quanto più lunghi siano i giri di palazzo.
Io sono cresciuta facendo i giri di palazzo, hanno segnato metro dopo metro il mio diventare grande.
Poi mi sono messa a guardare dentro le finestre, perché qui senza l'abitudine delle tende mi viene spontaneo infilarmi un po' nelle vite delle persone.
Poi sono rientrata ed ho scritto questo.]



Non è la prima volta che mi succede eppure non riesco ancora a gestire la situazione e questo, mi rendo conto, non va bene.
Ora mi rilasso, sorrido, abbasso queste spalle contratte e cerco di capire dove e soprattutto con chi, sono.
Ma lo devo fare in fretta o penseranno che mi stia venendo un ictus, non vorrei mi succedesse come tempo fa che mia madre si spaventò  a tal punto da portarmi all’ospedale.

Comunque ormai dovrei aver capito come funziona: ronzio e ciao. Mi ritrovo di la. O di la. O di la. Dipende.
Da che dipende non lo ho invece  ancora capito e ho la sensazione che non lo capirò mai: non ci sono nessi logici, motivi o spiegazioni, non c’è un prima né un dopo, non c’è niente che scateni tutto questo.
Succede e basta, così come è successo e basta la prima volta.


No, non penso siano state le droghe anche se effettivamente la prima volta ero sotto trip e ci ho messo una quantità di tempo notevole  a capire che mi stava succedendo davvero e che non era la solita allucinazione, non come l’etichetta della bottiglia di birra che mi parla o la tazza per la colazione che mi risucchia la testa o le nuvole che si trasformano in ovatta, mi si infilano nelle orecchie e bisbigliano.

No.
Niente di tutto ciò, io ho semplicemente a disposizione più vite da vivere ed in fondo, è quello che sempre desiderato.
Ogni volta che, per motivi pratici, non sono riuscita a visitare un posto che avrei tanto voluto vedere oppure ho conosciuto una persona con la quale ho sentito un legame forte, quasi viscerale, un’affinità immotivata e non facilmente assecondabile, non mi sono sempre detta: “chissà, forse in un’altra vita?!”

Ecco, ora ho le mie altre vite: devo solo cercare di capire come vivermele senza sembrare una dissociata bipolare in ognuna di esse.

Dimenticate tutti i film che avete visto sull'argomento, perché nelle mie vite non ci sono la cabina del Dottor Who né il ripostiglio del libro di King, ma poi era davvero un ripostiglio? Dovrei rileggerlo.
Nelle mie vite non ci sono strani portali, l’unico portale è nella mia testa. Anzi, forse è proprio la mia testa, a me piace pensare che avvenga una specie di corto circuito tanto per intenderci.


Io sono e resto sempre una donna di 40 anni, il mio nome è sempre Lisa, ho una madre, un padre, una sorella, un cane, un figlio, un marito, una compagna, un migliore amico, una migliore amica, tantissimi conoscenti ma queste persone non rivestono necessariamente gli stessi ruoli nelle stesse vite.
Avete capito? Ovviamente no. Non posso biasimarvi, neanche io capirei.

Comunque, questa che vedete venirmi incontro premurosa e con l’aria di chi sa è Enrica ed in questa vita è la mia compagna. A lei ho raccontato di questi miei –chiamiamoli- salti, di queste mie vite, di questo mio dovermi dividere.  È una delle pochissime persone che ne è a conoscenza, se non altro perché era con me la prima volta che è accaduto.


Quando è accaduto ero nell’altra vita, quella nella quale lei è soltanto la mia migliore amica e all'epoca passavamo tanto tempo insieme, il venerdì sera ad ubriacarci al pub, le chiacchere, le confidenze, lo shopping  e le risate e nessuna delle due aveva mai nemmeno preso in considerazione l’ipotesi  di mettersi insieme ad una donna, anzi, il solo pensiero ci faceva ridere imbarazzate ed invece in quest’altra vita siamo felicemente insieme da anni ed attualmente alla ricerca di un donatore di seme. Lei è gelosa delle mie altre esistenze, tanto che alla fine non le racconto più i dettagli.

I primi tempi invece passavamo giornate intere a parlare delle mie altre vite, di quelle dove lei non è la mia compagna ma, appunto, la mia migliore amica, la mia istruttrice in palestra o la mia dog sitter.
Parlavo continuamente del fatto che in due vite su quattro lei non aveva per me nessun tipo di importanza o comunque, non quell’ importanza.
Ci stava male ed io potevo capirla e soprattutto non avevo niente da dirle per farla stare meglio, quindi abbiamo smesso di parlarne ed ora fingiamo entrambe che vada tutto bene.

Questo invece è Tommaso: il mio migliore amico in questa vita ma anche mio marito, mio zio (sì, lo so, fa un po’ impressione) e il mio psicoterapeuta (e qui Freud si farebbe una bella risata). 


In una sola vita ho un figlio, in un’altra invece sono sterile.  In tre vite su quattro vado in scooter, solo in una vita guido la macchina. In tutte le mie vite fumo.
E così via, tra mille piccole o grandi differenze che ad elencarle non finiremmo più.

Quello che vorrei capiste è che io non posso mai sapere, in nessun momento, cosa accadrà, dove mi troverò, con chi e a fare cosa. Sono passata dalla fila alla posta al fare l’amore in un secondo. Dal ristorante al bagno di casa. Dal silenzio della biblioteca ad un concerto.  E così via.

Le prime volte la mia grande paura era quella di sparire da una vita per andare in un'altra, mi domandavo cosa avrebbero pensato le persone di queste mie sparizioni, non riuscivo ad immaginare le loro reazioni e temevo le conseguenze poi ho capito, anzi Enrica mi ha rassicurata spiegandomi che io in realtà non sparisco davvero, io rimango lì presente fisicamente ed anche mentalmente, solo dopo anni lei ora sa capire quando mi sta per succedere, ha imparato a riconoscere il momento del salto : dice che mi assento per qualche secondo ma bisogna sapere quello che mi succede, per potersene accorgere.

Avete capito ora? Prendete un mazzo di carte, mischiatelo e disponetele sul tavolo. Osservatele. Ora riprendetelo, mischiatelo di nuovo e mettetele nuovamente sul tavolo. Osservatele di nuovo.
Ecco, queste sono le mie vite: stessi personaggi, ruoli diversi.  E mille combinazioni, mille sentimenti, mille sensazioni.

Una sola eccezione: i miei genitori, che sono loro in tutte le mie vite, che mi salvano dalla follia, che sono il mio filo rosso da seguire per non perdermi mai.

E poi me stessa, la mia traballante certezza, quella che si sentiva troppo stretta in una vita sola ed ora si sente quasi sempre persa, saltellando da una vita all’altra.

martedì 7 ottobre 2014

Eloise





La signora che paziente attende il suo turno in pasticceria si chiama Eloise.  O almeno è il modo in cui si fa chiamare negli ultimi 20 anni.
I capelli che iniziano ad ingrigirsi lei li tiene raccolti in un anonima crocchia pur di non rinunciare al vezzo di tenerli lunghi, infatti se li scioglie le arrivano quasi al sedere.

L'unico segno particolare che aveva e cioè un neo sotto l'occhio, se lo fece rimuovere anni fa.
Insinuò nel dermatologo il dubbio che potesse essere brutto, gli raccontò di come sua madre fosse morta proprio di melanoma alla pelle ed in questo modo riuscì ad ottenere quell'intervento.

Non ha più amici se si esclude il fioraio, con cui beve qualche innocente the il lunedì pomeriggio quando torna dall'incontro di lettura con quelle vecchie noiose, o meglio, lei le vive come tali pur essendo in realtà sue coetanee, quelle vecchie che leggono sempre brani di un amore banale e lontano o se proprio vogliono trasgredire qualche passo di Grishman.

Per tanti anni non ha avuto più contatti con la sua unica famiglia, qualche anno fa la sua unica nipote riuscì sorprendentemente a trovarla, lei negò per mesi di essere davvero la nonna, le diceva con voce dolce e rassicurante: "signorina, si sbaglia. I miei nipotini vivono in Francia" ma quando poi vide nello sguardo la determinazione e la rabbia che le ricordarono la lei di tanti anni fa, si arrese.

Per fortuna quella ragazza non aveva preso niente da quello stupido del figlio.

La nipote non le chiese mai perché avesse cambiato città ed identità e lei, del resto, non aveva nessuna intenzione di dirglielo.
Ma le faceva piacere ricevere quelle, fortunatamente rare, visite.


È stanca di scappare, di cambiare identità e colore dei capelli e la paura inizia pericolosamente ad affievolirsi, anche se è sempre con lei. E pensandoci bene, non saprebbe dire se la paura più grande sia quella di essere riconosciuta come l'autrice dell'omicidio di tre uomini o quella di venire punita per quello che ha fatto, magari da Dio, sulla cui esistenza ha ancora qualche dubbio.

Odia la vecchiaia, la fa sentire debole. Vorrebbe essere ancora quella giovane donna di un tempo: bella, sicura di sé, che non si fermava davanti a niente a nessuno e non questa versione di sé stessa rattrappita, timorosa, inaridita e grigia.


È quasi il suo turno, sorride paziente alla lentissima commessa e nel farlo tira fuori dalla tasca una collana con un ciondolo a forma di croce.
È il feticcio che l'accompagna da quasi 30 anni ormai, lo stesso che la sua mano sporca di sangue e terra strappò dal collo di Leonard tanti anni fa.



Tre ore

Di quel giorno non ricorda quasi più niente, ma se una cosa le è rimasta impressa nella memoria è proprio l'ipnotico movimento oscillante che la collana faceva davanti al suo naso: a volte le sfiorava la fronte, a volte le accarezzava le guance. 
Se c'è una cosa che non ha dimenticato in tutti questi anni e che mai dimenticherà è proprio quel ciondolo a forma di croce che si comportò in modo così stridente con il resto della situazione. 

In un lago di sangue, lacrime, dolore, urina, quel ciondolo sovvertì tutte le regole e lo fece accarezzandola delicatamente come a dirle, ci sono io, non ti preoccupare, ora passerà tutto.
Quel ciondolo, quel movimento, quelle carezze le diedero la possibilità di fuggire da quella agghiacciante realtà e di rintanarsi in un mondo piccolo piccolo e tutto suo, in cui riceveva delle carezze sul viso, un solletico sul naso, dei colpetti sulla fronte.
Quel giorno furono il ciondolo e la collana a salvarle la vita.

Leonard naturalmente non si accorse di nulla e nemmeno gli altri due che a turno le furono sopra, o dietro, se qualcuno si fosse accorto di quello che stava succedendo tra lei e la collana, di sicuro l'avrebbe fatta sparire. Perché lei non doveva provare nessun tipo di sollievo.

Per fortuna a toglierla da quel collo fu lei e solo lei e non la sfilò mai più dalla tasca nella quale la nascose, quasi come se avesse sentito da subito che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lei, per ricordarle il suo nome, p
er ricordarle chi era e cosa era invece diventata dopo quel giorno.

Erano ormai tre ore che era rinchiusa in quello scantinato e che quei tre corpi si sfogavano con il suo corpo, sul suo corpo, nel suo corpo. Chissà cosa li aveva portati a scegliere proprio lei, chissà se era la prima, sicuramente non sarà stata l'ultima. 

Quando Leonard le propose di andare a finire la serata bevendo qualcosa a casa di un suo amico, non poteva immaginare che sarebbe finita così, che sarebbe finita a sperare di morire pur cercando di rimanere in vita. 
Che poi se fosse morta, pensava, gli avrebbe tolto il gusto di continuare ma nemmeno di questo era poi tanto certa.



L'esercizio era inventare un personaggio. Il corso sempre quello delle Balene

martedì 23 settembre 2014

Incipit

Come forse saprete, o forse no, sto seguendo un corso di scrittura creativa in italiano qui a Berlino, per l'esattezza quello di Le Balene possono volare.
Non mi sono vergognata mai di raccontare cose intime e personali ed invece -sorpresa- mi riscopro timorosa nel lasciarvi affacciare all'interno della mia fantasia.
Di immaginare, 
di lasciarmi ispirare.
Guidare.
Insegnare.

Ma mi piace, mi piacciono i miei limiti e le mie insicurezze. Ed ogni tanto, mi piace quello che scrivo.

No, il sole no. Vi prego.

Quando batte il sole lo fa così forte e in maniera così asfissiante che le sembra ogni volta di morire.
Il secchio in cui le lasciano quel poco di acqua sembra ogni giorno più lontano, non sarebbe stupita nello scoprire che non è un caso e che la cosa sia voluta.
Ogni volta qualche centimentro più lontano, così che diventi più faticoso raggiungere quell’acqua putrida eppure indispensabile. Solo un centimentro che però si fa sentire tutto.

Non avrebbe mai pensato che un centimetro potesse significare tanto, se invece la catena che le stringe la caviglia si potesse allentare anche di un solo mezzo centimetro, la pelle non si scarnificherebbe come invece sta facendo. E poi quelle mosche che girano intorno alla sua ferita infetta e che la preoccupano un po’.

Le sbarre della gabbia sono ormai infuocate e la prima volta che è successo, ha urlato e pianto così forte che uno si loro si è mosso a pietà o forse non ne poteva semplicemente più ed ha coperto la gabbia con un grosso telo nero, come si fa coi pappagalli per farli smettere di cantare o parlare.
A lei è piaciuto e quando l’aria iniziava a scarseggiare, poteva avvicinare il naso, scostare un po’ il telo e respirare forte.
Fu una bella giornata quella, poi svenne. E quando si riprese il telo era sparito ed era buio.


Le fanno sempre degli indovinelli prima di darle da mangiare e quando non indovina non mangia: questa è la regola. 


lunedì 1 settembre 2014

Basi e passaggi. Ieri e oggi. Andate e ritorni.



Riflettevo con un'amica* sulla spiaggia al tramonto 

o almeno mi sembra che si trattasse di una spiaggia al tramonto, in ogni caso mi piace pensare che questa riflessione che vi sto per raccontare io l'abbia fatta proprio su una spiaggia al tramonto

che forse la condizione dell'emigrante mi è proprio congeniale.

Non mi è capitata per caso, non si è trattato solo di necessità lavorativa, del cercare una vita migliore, della crisi in Italia, della voglia di provare qualcosa di diverso.

Forse in fondo a tutti questi motivi c'è, dolcemente adagiata, quell'affascinante malinconia che la condizione porta con sé, quell'intrinseca nostalgia delle persone care che mi accompagna ogni giorno.

E che mi piace, non posso negarlo. Mi piace sentire delle mancanze, mi piace immaginare, mi piace ricordare. E mi piace fare tutto ciò continuando a vivere.


Ad esempio mi è sempre piaciuto, al ritorno dalle vacanze, guardare per un'ultima volta il panorama (quasi sempre un mare da cartolina) la sera o la mattina, dipende dall'ora in cui ci si rimetteva in macchina per tornare a casa, in ogni caso riuscivo a ritagliarmi qualche minuto per tornare, spesso da sola, ad osservare il luogo che stavo per salutare e per soffermarmi su quel dolore fisico allo stomaco, sulle narici piene dei giorni appena trascorsi, su quel già mi manca, su quel ci vediamo l'anno prossimo.


Ed è così che qualche giorno fa ho guardato per la prima volta Roma. L'ho guardata dal finestrino della macchina che da via Angelo Emo ci ha portati di corsa a Fiumicino, e poi l'ho guardata anche dal finestrino dell'aereo, soffermandomi sul mare che sembrava davvero limpido.

Roma che è sempre stata base solida e che invece, dopo tanti anni si è trasformata improvvisamente in luogo di passaggio, in un posto in cui tornare a leccarsi le ferite, in un posto dove inaspettatamente rilassarsi, in un luogo di amori primitivi e proprio per questo adatto per potersi prendere una pausa dall'amore di oggi. 

Dall'amore totalizzante che pretende un cagnolino complicato come il mio, ad esempio, da quello più delicato ma comunque importante che provo per Gimli.
Dall'amore solido per il mio compagno di vita, dall'amore travolgente per questa città bipolare e sempre nuova in cui viviamo da più di un anno.

Pausa. 

E si torna indietro di vent'anni, di colpo. Vent'anni fa.

Rendersi conto di avere così tanto da ricordare e da raccontare su qualcosa che ha vent'anni, qualcosa che è accaduta vent'anni fa, ti mette di fronte all'età che passa e lo fa in modo molto più deciso di quanto abbia mai fatto un qualsiasi specchio. 

I miei ricordi hanno vent'anni e sono una bella ragazza alle prese con l'università, che ha già la patente da un paio d'anni e che guida il motorino ormai da sei.

I miei ricordi ormai hanno una vita sessuale e assumono un anticoncezionale.
I miei ricordi sono già partiti per un interrail e sperano fortemente di poter partire per l'Erasmus. 
Rendiamoci conto, i miei ricordi sono adulti.

Vent'anni fa: la comitiva da Lolita nei pomeriggi d'estate che non passavano mai, a fare la conta di chi era già partito e chi invece era già tornato e quando parti tu e quando parto io. 
A Fregene con il pullman dell'Acotral bollente e schioppettante sull'Aurelia intasata.

Una cameretta troppo piccola da condividere con una sorella troppo piccola.

E poi, il primo vero amore, in un giorno di (boh diciamo novembre) che si presenta in comitiva con un motorino che faceva un casino incredibile e non vi fate nemmeno tanto caso, che poi tu stai già con un altro che però presto lascerai in un pomeriggio al Gianicolo rifuggendo dai suoi baci adducendo come scusa un originale mi strucchi.
(Forse sarebbe stato più corretto dirgli mi stucchi, beata gioventù.)

Poi il famoso appuntamento in cui si presentò con 25 ore di ritardo che avrebbero dovuto dirmi tutti su quello che sarebbero stati i successivi sei anni. E invece per fortuna non mi disse niente e furono assolutamente faticosi, deliranti, dolorosi, avventurosi ma proprio per questo meravigliosi.

E se vent'anni fa (circa) ad esempio mentre tornavate dal Festivalbar di Napoli e giungeva la notizia della morte di Lady Diana o mentre attraversavate la Sardegna in Vespa, o mentre aspettavi che finisse di modificare chissà quale motorino o peggio ancora mentre cercavate di lasciarvi al telefono, di persona, per lettera, tra le lacrime, le liti, il dolore, entrambi incapaci di staccarsi dall'altro nonostante poi fosse davvero l'unica cosa sensata da fare, se in uno di quei mille momenti qualcuno ti avesse detto che vent'anni dopo lui ti avrebbe aperto le porte della sua nuova casa e della sua nuova vita abitata da una compagna fantastica (*l'amica della spiaggia al tramonto) e un figlio speciale, sveglio, simpatico e felice, tu avresti risposto ma è impossibile!

E invece non è stato affatto impossibile, è stato bellissimo.

Concederci dei giorni insieme, ridere di ciò che è stato, ritrovare dei modi di dire che ancora abbiamo, tornare negli stessi luoghi di quei tempi, ed osservare le nostre vite di oggi: complicate, piene ma felici. E gioire di questo. E sentire fortemente che certi legami, non si dissolveranno davvero mai.


Anche questo è stata la mia vacanza.

Oltre ai miei piatti preferiti cucinati da mamma e papà, al perdermi con la macchina per una Roma vuota, all'amare mia sorella anche nei momenti di odio, all'aperitivo al Pigneto, al non trovare più il Gianicolo (?!) ad un mare toscano bellissimo, al sentire che mi stavo ustionando e non prendere provvedimenti, alle ore ed ore in acqua, ai saluti ai nonni, agli amici di sempre, a quelli che avrebbero voluto ma non hanno potuto, a quelli che passano in sordina e va bene così.

Qui a Berlino il segno dell'abbronzatura stride col cielo che già ne promette delle belle e con le giornate che iniziano ad accorciarsi, io non vedo l'ora di rituffarmi nella routine di un autunno e di un inverno che spero sarà più clemente di quello trascorso. E non parlo di meteo.

Domani torno anche a scuola di tedesco.
Oggi devo fare un ripasso:


Heimweh  (da Heim casa e Weh dolore)  richiama alla mente il dolore che si prova quando si è lontani e si pensa alla propria casa, ai propri affetti.

Fernweh (Fern lontano e Weh dolore) è la nostalgia per dei posti lontani che non si conosce ancora.


Ed io soffro di entrambi oltre alla sempreverde "nostalgia per qualcosa che non vivrai mai" che Baricco non ha avuto di meglio da fare che infilarmi in testa tanti anni fa e per la quale non credo esista ancora una parola in tedesco. 

lunedì 21 luglio 2014

Amico immaginario (non sono immaginario)

-carta da parati vecchia e rovinata- Google- 



C'è questo fatto che i personaggi per me possono essere intercambiabili, possono anche non esserci forse. Quello che conta davvero è ciò che provano.

O semplicemente il personaggio sono quasi sempre io, sono in ogni altra persona che descrivo, così come chiunque può essere me e non me la sento di dire "questo non potrei mai esserlo", questo vorrei non esserlo mai, al limite, quello sì, quello posso dirlo. O devo. O dovrei. Vabbè.

I personaggi. 


Descrivete un personaggio che vorreste essere o che non vorreste essere mai. Ma non qualcosa che siete realmente.

E chi sbuca? 

Lui.
Sono passati così tanti anni dalla prima volta che l'ho incontrato, durante un volo di Pindaro, uno dei tanti.
Poi l'ho ricercato, ho cercato di capirlo, di chiarirmi le idee su di lui, ho cercato di dargli un nome ed una faccia. Ho cercato di fermarlo da qualche parte ma niente. Tutto inutile.


È coerente col suo non voler essere una presenza costante al punto da farmi dimenticare di lui.

Ma oggi è tornato in un baleno e non ho sentito scuse, l'ho fermato, l'ho guardato negli occhi sempre bassi e fastidiosamente sfuggenti e l'ho costretto a rimanere con me per qualche secondo. 

Uomo, 30 anni, magro, solitario, scuro, un po' sociopatico, nessun rapporto con la famiglia, qualche amico con cui però non esce mai.
Forse si droga, ma niente di serio.

Un cane, che è l'unica occasione per uscire di casa, tre brevissime volte al giorno.
Università abbandonata, troppo incostante per avere una qualsiasi relazione umana.
Ormai quasi completamente disinteressato al sesso.

Ecco le visioni. Un ronzio che anticipa sempre un flashback.
Pochi minuti di assenza in cui vede -letteralmente- con gli occhi di un'altra persona, di una ragazza,  per l'esattezza.
"Assorbenti, make-up, discoteca affollata, cocktails con amiche, sesso con un uomo durante in quale vede soltanto la spalliera del letto."

Niente che potrebbe veramente essere nel suo campo visivo o nella sua mente.

Eppure ci sono: ronzio e flashback.
Diventa tutto quasi piacevole, una curiosa abitudine.

[Senza sapere che nell'appartamento accanto, a "lei" succede la stessa cosa e i suoi, di lei, flashback sono

"carta da parati vecchia e rovinata, tv accesa su televendite notturne, un cane, un telefono che nessuno ha voglia di usare, cartine e tabacco."]

Nell'ultima immagine, "lui" è steso a terra, sotto casa.
Non sappiamo se è morto, certo è che è stato investito da un ultimo, beffardo, flashback.
[Come?]


Lui vede un altro uomo con un cane in mezzo alla strada, "forse gli chiedo da accendere", pensa...immenso sforzo di socialità...

Lei è alla guida della sua macchina, non esattamente lucida e ne vede un'altra venirle incontro, si spaventa e perde il controllo.

Bum.

[sta roba gira, gira, gira come una macchina che gira, gira, gira sul GRA di Roma, un GRA insolitamente vuoto aggiungo, e che non riesce ad imboccare un'uscita.
E così, nello stesso sterile modo, gira, gira, gira da anni, questa storia nella mia capoccia.
Io ero lei, ma oggi ho scritto di lui.
Non sono mai riuscita a metterlo per iscritto, questo non è tutto, non è molto ma è un sunto, frutto di 20 minuti di esercizio al corso di scrittura creativa delle Balene.
C'è pure una musica da metterci sotto, che è  questa. Trovo che sia antica il giusto.]