lunedì 27 aprile 2015

Come sassi nel mare.

San Domino, Isole Tremiti
Mi ricordo ancora il giorno in cui guardandomi negli occhi Tina mi disse: “Prendi il mio zaino, è pieno di sassi brutti e pesanti, portalo al mare e una volta lì buttali in acqua.”
Forse anche lei sapeva che non mi spaventa farmi carico di persone e cose, che le prendo con me, seppur coi miei tempi e le mie pause e le mie paure.

È passata una settimana da quando sono arrivata su quest’isola, il viaggio è stato faticoso, il mare molto mosso ma ora sono qui ed attendo paziente che il vento carico di microscopici granelli di sale levighi i sassi e li renda lisci. 

Forse dovrò aspettare settimane, forse mesi ma non ho fretta, le ho promesso che l’avrei liberata da quel peso e questa promessa fa ormai parte di me come tutte quelle cose che ci sono da prima ancora che il mio sguardo sul mondo si facesse consapevole.

Prima di buttarli in mare però voglio renderli belli, lisci, tondi, voglio togliere il brutto che le ha fatto desiderare di liberarsene per sempre perché io ho bisogno del bello e lo cerco in tutto quello su cui poggio questi occhi stanchi e queste palpebre gonfie.


La torre di sassi che ho creato è alta e si staglia contro il cielo azzurro e bianco, seppur invisibile il vento sta facendo il suo lavoro e i sassi diverranno lisci e tondi come li desidero io e come credo vorrebbe vederli lei e lo saranno per qualche istante e brilleranno di splendente bellezza prima di sprofondare per sempre nell’abisso più nero.

domenica 26 aprile 2015

Una notte a caso.

Restiamo io e lei, passeggere di una Ubahn piena di corpi, i soliti che non sai mai se vanno o vengono ma che di certo come noi cercano una strada, una qualsiasi.
Un momento di silenzio dopo le risate e i saluti con chi prende un'altra direzione, quella giusta.
Io scrivo sullo smartphone, è il mio vezzo, quello di aggiungere un saluto virtuale a quello fisico, spesso troppo veloce.

Lei interrompe il mio digitare silenzioso 

“io ho sognato di te e di quello che ti è successo, prima che ce lo leggessi in aula”

e nella mia mente i puntini si uniscono e l' immagine che viene fuori è chiara ed è quella di un’altra vita in cui queste persone, questi quasi sconosciuti che ora hanno preso le sembianze di volti più o meno familiari, volti e corpi che riempiono le mie giornate, spesso le mie notti, a volte anche le mie albe, queste persone erano già qui, da qualche parte dentro i miei giorni.

Penso alla magia che crea lo scrivere ed il leggere insieme, il supporci, l'intuirci, il provare a conoscerci e forse, alla fine, riuscire anche a capirci senza però mai pretenderci.

Alexanderplatz, le nostre strade per stanotte si dividono: le indico la via, io che sono da sempre quella da indirizzare e ci abbracciamo. Ed è forte. 
Ci abbracciamo come amiche, come sorelle, come anime sconosciute eppure affini.

Torno a pensare, ormai sola, alla magia che mi fa stare in un’ora imprecisata della notte, notte che non è più scandita dallo smartphone che finalmente riposa nella borsa, a scrivere su un blocco bianco con una penna viola in attesa di un tram che mi porterà a casa. Fa caldo e i 10 minuti di attesa non mi sembrano tragici, se posso riempirli di parole.


La Torre della Tv mi osserva e mi sembra approvare sorridente, io la ringrazio per tutto questo. Per queste vie e queste vite che si incrociano sotto al suo sguardo metallico e colorato.

giovedì 23 aprile 2015

Duemilaquattrocentosecondi



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E’ ormai notte fonda e tutto è solo un ricordo, ricordo che  però non arriverà mai ad essere lontano, che anzi si fonderà con altri giorni ed altre ore pur rimanendo per sempre altro, per sua natura terribile.
Le ore hanno fatto da spartiacque e adesso non rimane che compilare qualche modulo prima di cercare conforto nel buio.
Perché non c’è altro che si possa fare. Non più.

Soltanto una manciata di ore prima Luca  era stordito dal profumo del Ponentino. Gliene avevano parlato gli occhi pieni di pagliuzze dorate di una ragazza romana, che quella sera riflettevano il fiume di una città che non era la sua, quella sera , forse l’unica, in cui lui non sapeva ancora che l’avrebbe amata fortemente.

Gli occhi di Mia raccontavano le contraddizioni e gli odori di una Roma che non l’avrebbe lasciata mai in pace, che sarebbe rimasta sempre tra la sua lingua e i suoi denti, nascosta dietro ad ogni parola.

Ma fino a quella mattina di maggio lui non era riuscito a capire davvero il senso di quella città.  
E invece aveva voglia di capirla, a fondo,  perché farlo avrebbe significato entrare in lei ed era l’unica cosa che desiderava davvero.

Così, l’invito al matrimonio di un amico d’infanzia di Mia, gli sembrò l’occasione perfetta per conoscere quelle due strane e nuove creature: una donna e la città che l’aveva vista crescere.

Porta anche Lolli

disse lei istintivamente mentre prendevano un caffè pianificando il viaggio e in quel momento a Luca non sembrò così folle l’idea di affrontare 600 km con una donna che conosceva da poco tempo, pur essendone già dipendente e con un bambino di 3 anni che invece dipendente lo era da lui, dal suo papà, nonostante le gambette corte ed incerte lo portassero spesso lontano, ad esplorare con sguardo curioso quel mondo troppo grande per i suoi occhi piccoli.

Giunti nel casale dove di lì a poco si sarebbe svolta la cerimonia i tre si prepararono: lui perse parecchio tempo nel provare ad infilare le scarpe eleganti al piccolo, tanto che  alla fine optò per le solite Kickers ormai sformate e lei per caricare di eyeliner nero i suoi occhi, consapevole però che non era c’era bisogno di quello perché lui ci si perdesse dentro.
E così ebbe inizio la serata tra cibo, vino, musica e chiacchere.

Luca ascoltava rapito i racconti di Mia che lo inondava di ricordi descrivendogli ogni angolo di quella città che osservavano dall’alto della terrazza: lavori, primi appuntamenti, strani incontri, la sua famiglia, il suo gatto, tutto gli appariva familiare.
Le parole di lei lo trasportavano placide sul fiume di quella vita in cui lui non era nemmeno pensiero.

Si distraeva solo per controllare Lolli che curioso si aggirava tra i tavoli, mangiava servendosi con le mani sporche di terra direttamente dal buffet e beveva grandi sorsate di succo di frutta nonostante la mamma e cioè la sua ex compagna, si fosse raccomandata di non fargliene bere troppo se non voleva accompagnarlo  in bagno ogni 5 minuti.

Ma Mia era così interessante e la sua scollatura così accogliente che Luca facendo con la testa ad ogni sua frase, si immaginava nell’atto di appoggiare l’orecchio al suo seno, per sentire il suo respiro innalzarsi,  fino ad arrivare con le labbra lì dove lei avrebbe avuto un sussulto.

Papà, posso andare giocare coi pagliacci?!”

Luca si voltò schiarendosi  la vista che il Pinot Grigio gli aveva reso annebbiata e in pochi secondi mise  a fuoco due clown: una ragazza alta e magra e un ragazzo di media altezza.
Il trucco era perfetto e così l’abbigliamento  e come da tradizione i due non parlavano ma comunicavano a gesti e grandi sorrisi.
Solo lei, in via del tutto eccezionale infranse la regola del clown ed usò la voce per chiedere ai genitori se i bambini potevano  seguirli per giocare insieme, una sola breve frase e poi riprese quel linguaggio sfarzosamente silenzioso fatto di passi lunghissimi e gesti ampi.

Così Lolli insieme ad altri 5, 6 bambini seguì i due e Luca riuscì a vedere il punto esatto in cui si sistemarono: i bimbi in cerchio e i due clown davanti a loro, pronti ad intrattenerli con palloncini  che di lì poco avrebbero preso la forma di cani e spade e giochi che li avrebbero fatti urlare di gioia e saltare dall’emozione.

Nell’andare via rumorosamente formando uno squinternato trenino che gli ricordò i Bimbi Sperduti di Peter Pan, Luca notò che il clown maschio si voltò e gli rivolse uno sguardo leggermente più lungo del normale, lui lo sostenne  assumendo un’espressione seria ed incuriosita e l’altro distese la bocca lasciando scoperti dei denti giallissimi.
Una specie di ghigno traverstito da sorriso che lo fece rabbrividire per un attimo.

Si avvicinò la sposa, una specie di fata degli elfi, scalza con morbidi boccoli castani lungo le spalle nude

“i ragazzi sono bravissimi, vedrai il tuo bambino si divertirà moltissimo. Lei ha già lavorato al matrimonio di mia cugina. Avete assaggiato la crema fritta? È favolosa. Divertitevi ragazzi, a dopo

disse tutto d’un fiato, da copione, come avrebbe detto a prescindere dall’interlocutore, come quando in un giorno sognato così a lungo ci si ritrovava a dover parlare con tutti e cento gli invitati, con o senza voglia.

Luca apprezzò il gesto ed anzi si sentì rassicurato dalle referenze dei due ragazzi, Lolli era piccolo e scapestrato e lui sperava di non dover litigare con nessun genitore, non dopo il fine settimana scorso quando dovette staccare il figlio dalla guancia di un compagno di giochi colpevole di avergli preso una macchinina.

Mia si era spostata a parlare con un tipo alto e ben piazzato e Luca paziente ne aspettò per un po’ il ritorno continuando a bere e  facendo fare ai suoi occhi la spola tra lei e il gruppetto di bambini urlanti e pensando a quale potesse essere il motivo che spingeva degli adulti a doversi vestire da pagliacci per far divertire dei piccoli indemoniati e  poi di nuovo tornava a Mia che con una mano teneva il bicchiere e con l’altra giocherellava con la collana e rideva e si spostava col corpo in avanti e poi rideva ancora mettendosi la mano davanti agli occhi e di nuovo parlava fitto fitto con il tipo alto.

Andiamo a fare un giro nel parco?” le chiese, avvicinandosi e lanciando uno sguardo che non lasciava speranze al  coraggioso intruso.
Lei sorrise come a dire “sapevo lo avresti fatto” presentò i due, si congedò e prendendolo sottobraccio si allontanò con lui verso il parco.

Passarono vicino ai bambini e Luca disse a Lolli di non muoversi e rimanere sempre con i pagliacci, lui sembrò averlo capito ma lo spettacolino in quel momento era troppo interessante per rispondergli.

Luca e Mia si baciarono, come da copione, nascosti nel folto di un parco che non sembrava possibile essere al centro di quella città nevrotica eppure seduttiva.
Si baciarono ancora, si misero le mani tra i capelli e sotto i vestiti, con una frenesia che nessuno di loro provava  da tempo e in quel modo che è quasi mangiarsi avvicinarono i loro corpi fino a sentirli avvampare.
Nessuna sorpresa, sapevano entrambi che sarebbe successo, aspettavano solo l’occasione giusta.
Poi passò quel tempo che non si sa mai quanto è, che avresti detto dieci minuti ed invece è mezzora oppure un’ora.

Un’ora e mezza!
Cristo, Lolli!

Luca e Mia tornarono indietro correndo e nello scoprire che c’erano ancora quasi tutti gli invitati e che la festa era ben lungi dal terminare, tirarono subito un sospiro di sollievo.
Ma il sollievo durò poco: si diressero velocemente verso i due clown circondati dal gruppetto di bambini che però non era più un gruppetto. Erano solo tre. E tra quei tre, Lolli non c’era.

Una morsa di terrore strinse lo stomaco di Luca ma con calma chiese alla ragazza
dov’è Lolli?

Lei, che non avesse avuto la faccia truccata di bianco, sarebbe impallidita, si guardò velocemente intorno e disse
Ehm, non lo so. Ha detto che doveva fare pipì e che poi sarebbe tornato da lei.

L’uomo, d’istinto cercò con lo sguardo il clown maschio che era di spalle intento a sistemare nelle borse colorate giochi ed attezzi , questo si voltò e di nuovo gli rivolse quel ghigno che ormai non aveva più dubbi, era malefico.

Ma l’avete mandato da solo? Ma siete pazzi? E’ piccolo.
Ma noi non ci siamo presi mai la responsabilità del bambino, i genitori stanno sempre qui intorno, passano a guardare, lei è sparito! Ho pensato che il piccolo l’avesse trovata.

Nel centro esatto del triangolo che vergogna, terrore e rabbia formavano, Luca si mise a cercare il suo bambino ovunque, col cuore in gola, le mani sudate e la mente invasa da immagini catastrofiche e cruente, i film horror che avevano accompagnato tante sue serate gli presentavano ora il conto tornando sotto forma di terribili fantasie.

Tornò al tavolo del buffet, guardò vicino al palco sul quale suonava ancora il gruppo, corse alla terrazza e premendo i pugni sopra il marmo ormai freddo del cornicione, istintivamente guardò giù.
Nulla tra le siepi, nulla sulla strada. 
Luca pianse per il sollievo di non aver trovato il corpo del suo bambino schiantato al suolo e per la disperazione di non sapere dove cercarlo. Gli tornò in mente il ghigno del clown e fu lì che pensò al peggio, che si preparò a veder morire una parte di sè. Si morse le labbra fino al sapore ferroso del sangue e le odiò e con loro odiò il mondo in cui entrando in quelle di Mia gli fecero perdere la cognizione del tempo e l’unica cosa che davvero contasse nella sua vita, l’unica cosa buona che aveva fatto: quel bambino buono e curioso dagli occhi blu.

Prese il cellulare e chiamò la polizia pronto a denunciare la scomparsa, erano passati quaranta minuti ed avevano guardato ovunque, chiesto a tutti, pensato ad ogni eventualità.

Il brusio che si levò all’improvviso spezzando in due quel silenzio di morte, lo fece voltare lentamente e tra le lacrime intravide due figure: un adulto, forse una donna, che teneva per mano un bambino.
Fu lì che la mente si fece inganno e si divise in due metà esatte: una parte era convinto di averlo ritrovato e l’altra invece voleva credere che si trattasse di un altro bambino e non certo di Lolli.
Perché Lolli non c’era più, era scomparso e con lui tutti i bambini della terra, insieme a i fiori e  ai fiumi.

La  donna si fece più alta, lo sovrastò con la sua figura e lui, non avendo il coraggio di guardarle il braccio e seguirne la linea fino ad arrivare a quel bambino che di certo non era il suo, la fissò in un punto imprecisato in mezzo al viso.
Lei aprì la bocca dicendogli
“L’ho trovato che dormiva in una delle scatole in cui teniamo i giochi.” 
Non si era mai mosso di lì, si era addormentato.

Nel frattempo arrivò la polizia
è lei che ha denunciato la scomparsa di un bambino? Ci sono dei moduli da compilare
E di seguito, come una buffa ed inaspettata risposta, arrivò la voce del piccolo
Papà, andiamo a casa?
Luca ritrovò il battito perso del cuore e la saliva nella bocca, lo stomaco si distese ed abbracciando Lolli lasciò andare incubi o paure.

O almeno, fu ciò che in quella profumata e surreale serata romana credette di fare, perché in realtà quell’assenza, quel buco nero lungo duemilaquattrocento secondi, sarebbe tornata a trovarlo puntuale, ogni notte della sua vita.

lunedì 13 aprile 2015

Che seme vuoi far germogliare?

La terra è bagnata ed affondarci le mani è un piacere atavico. L’odore che arriva alle mie narici è familiare e confortante, odore di un qualcosa che c’è da prima di noi, che rimarrà dopo, qualcosa nel quale finiremo tutti. 
Oppure no, oppure sceglieremo di essere cenere nel vento o ancora, qualcun altro sceglierà per noi. 

Ma la terra è una sorella, come la notte. Supporta i nostri passi incerti, ci rende stabili o ci fa tentennare, diventa sasso per farci inciampare, giaciglio per dormire.
Ed è pronta ad accogliere, pronta a cullare i nostri semi, a ricoprirli nello stesso modo in cui si mette una coperta sul corpo di una persona che si ama e che si è addormentata stremata sul divano.
Ricopre, protegge, dà il tempo, cura, questo fa la terra.

Ed io prendo i semi che ho trovato un giorno, per un caso che non è un caso e che da allora custodisco in una scatolina, li tengo tra le dita, faccio attenzione a non farmeli cadere dalle mani, non è il momento di essere maldestra.
Loro sono ciò che non vorrei mai perdere ed io vorrei lanciarli in aria e vedere dove cadono, dove rotolano, dove li porterebbe il vento se lo lasciassi fare, questo vorrei ma una parte di me, quella che ancora conosce la parola razionalità, sa che li infilerà uno per uno in punti diversi del terreno, assicurandosi che siano ben coperti, pronti ad attecchire al suolo.
Consapevole anche che forse non ce n’è bisogno, che se deve attecchire, attecchisce, se deve germogliare, germoglia.
Consapevole che alcune cose accadono da sole, a volte basta una pioggia improvvisa.

Prendo i tre semi, li guardo con negli occhi tutta la paura che ho di salutarli ma sento che è il momento. Confido nel sole e nella pioggia, confido nelle mie mani.
Li infilo con cura, a venti centimetri uno dall’altro. Chiudo gli occhi e penso a come sarà quando li rivedrò nella loro nuova forma, penso al lavoro che ci vorrà per innaffiarli, potarli, curarli, penso alle mani sporche e talvolta doloranti.


Penso a quando il mio giardino sarà al massimo del suo splendore e a quando Fantasia, Estro e Creatività brilleranno davanti al mio sguardo innamorato.

giovedì 9 aprile 2015

Aspettative al tramonto

Lei è la solita folle e sapevo sarebbe arrivata con venti minuti di sonno disegnati sulle palpebre. Mi ha sempre strappato un sorriso, lei: così libera, fuori dagli schemi, mentre si mangia la vita in silenzio, con aria sorniona e senza darlo troppo a vedere.
Poggia la borsa a terra e in questo gesto che le ho visto fare mille volte, mi ha sempre ricordato me e la libertà a cui, né io né lei, abbiamo mai rinunciato. 
Saluta gli altri con un cenno del capo, qualcuno penserà che non era il caso di presentarsi con ancora un alone di vodka intorno alla bocca, ma lei se ne fregherà ed io era esattamente così che volevo vederla. 
Prende un Ibuprofene dal fondo di una borsa incasinata, soffia via il tabacco e la manda giù senza acqua né una smorfia.
"È da 600, scema, vacci piano!"
questo vorrei dirle ma so che qualcun altro lo farà al posto mio.

Quella testa biondo cenere che sbuca dalla macchina, anche su di lei avrei scommesso, si appoggia al marito con tutto il peso di un dolore inaspettato e sconcertante. Avevamo altri progetti noi e questo no, nel suo business plan non lo aveva inserito.

Arriva un ragazzo magro,  non capisco...ah sì, me lo ricordo: occhi azzurri che non lasciano venir fuori quasi niente. Lui non mi sarei mai aspettata di vederlo. Sembra triste, forse sta empatizzando col dolore di qualcun altro, succede.
Del resto, anche se per vie molto traverse siamo stati in qualche modo uniti no?

Si salutano, formano un capannello, parlottano, qualcuno prova a sdrammatizzare.
Dai, così mi piacete, so che potete  farcela, coraggio!

E lui? No, lui no. Non ho intenzione di guardare in faccia i suoi pensieri perché li conosco già, non ne ho bisogno. Decido di andare oltre, lo faccio.

Chiacchere a bassa voce, musica, silenzi, qualche frase scontata, sconcerto e un profondo e scurissimo dolore. Che dire?

Al mio funerale non potevo chiedere di più.