lunedì 24 novembre 2014

Scritturoterapia. Un lunedì piovoso.



Abbiamo ascoltato un brano e no, durante l'ascolto non potevamo scrivere. E io mi sono sentita le mani bruciare, il volto avvampare e il cuore sobbalzare in petto per il divieto imposto.
Non scrivere.
Un treno che sbuffa, che parte, che aspetta. Ferro. Kilometri. Viaggi senza senso. 

-No, non puoi, aspetta. Non puoi segnarti niente, anzi non prendere proprio la penna in mano. Aspetta-
Poi l'abbiamo ascoltato di nuovo e lì sì, lì abbiamo potuto scrivere.

E io ho scritto questo.



Nina trascorreva ore intere su treni che non portavano mai da nessuna parte.
Aveva poco con sé ma quel poco era tutto il suo necessario.
Arrivava alla stazione della sua città in orari imprecisati del giorno e della notte, prendeva un thè, leggeva qualche pagina del libro che aveva in borsa e controllava allo specchietto gli occhi sempre sfatti. 


Poi, come in un rituale senza senso alcuno, si metteva sotto al tabellone luminoso degli arrivi. Si spostava poi verso il binario che per primo avrebbe accolto quel fiume deforme di carne, pensieri ed aspettative.
Li guardava sistemare con cura giacche e bagagli, qualcuno si tastava vigorosamente per assicurarsi di non aver abbandonato nulla sul sedile ancora caldo dopo ore di stretto contatto.
Molti avevano gli occhi lucidi. Avete idea di quanta gente pianga lungo i binari?


Poi arrivava il suo turno, si spostava sotto il tabellone delle partenze, chiudeva gli occhi, li riapriva e coglieva la prima meta apparire luminosa ai suoi occhi.
Torino.

Via.

Il biglietto lo faceva sempre a bordo. Il procedimento con cui sceglieva il posto invece non era altrettanto casuale, c'era uno studio dietro, un'analisi accurata che non starò qui a raccontarvi.

Una volta giunta al suo posto si metteva comoda ed iniziava a scrivere.

Scriveva di quello che le sarebbe accaduto una volta giunta.
Senza nessun appuntamento, incontro, destinazione.
Una volta scrisse dell'incontro con una vecchia antiquaria con la quale avrebbe parlato degli oggetti e del senso di possesso che scatenano in noi.
Delle storie, spesso più noiose di quanto vorremmo immaginare, di chi li ha avuti.

Poi ci fu un uomo, al quale scrisse -avrebbe donato il suo cuore, se solo ricordasse dove lo aveva cacciato. 
E via dicendo, personaggi inesistenti che l'aspettavano da qualche parte una volta giunta alla stazione.

Poi, finito il viaggio, rimetteva le sue cose nella borsa e scendeva al binario: lo sguardo che lanciava intorno a sé era sempre di sottecchi. Era incuranza e mai speranza.
E poi thé, libro, tabellone.

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