Richiudo la porta, se mi annusassi le mani ora sentirei l’odore
di ottone e di mille palmi che hanno toccato, prima di me, questa maniglia.
Invece non ho il tempo di farlo, né di pensarci perché giunge dritto nella mia
testa, un profumo di incenso e della cera ormai dura delle candele che una
volta sono state profumate.
Faccio un passo e il gatto scappa appena in tempo, non lo
calpesto e ne sono sollevata, mi sarebbe dispiaciuto sentire il verso sorpreso
e dolente che avrebbe emesso.
Poggio la mia mano sull’interruttore e mi fermo a riflettere
sui germi. Avevo una zia fissata con gli interruttori, li disinfettava almeno
una volta al giorno, diceva che erano la cosa che più si sporcava in casa.
Sto per premerlo, sfidando i microbi e pensando che no, non
ho mai disinfettato un interruttore in vita mia, quando sento una mano calda
posarsi sulla mia.
“Non lo fare” mi dice “Restiamo così”
Quello che mi arriva è cuoio e tabacco, intreccio, senza
capire ancora quello che sta succedendo, le dita tra le sue e rivolgo il viso dove dovrebbe essere lui.
I
centimentri che ci dividono non sono molti, posso sentirlo dal calore del suo
alito che mi scalda il viso.
“Ma che ci fai qui? Vuoi farmi morire?!”
“Stamattina quando sei uscita per andare a lavoro non ho preso il treno ed ho deciso
di rimanere qui ad aspettarti.”
“Al buio?” gli domando divertita.
Immagino, in quel nero che ci avvolge e divide, la sua
smorfia, quella che dovrebbe essere un sorriso.
“Da quando il sole è tramontato ho deciso di non accendere
la luce. Ho rinunciato a leggere ma ho ascoltato la musica.”
“Tu non sei normale.”
“Mangiamo?” mi chiede lui.
Senza aspettare la mia risposta mi prende per mano e mi
precede, dovrei essere io a guidarlo ma
per questa volta va bene così.
Percorro quei metri sfiorando la parete e cercando di
mantenere l’equilibrio, almeno col corpo.
Seguo il bordo della stampa di Feltrinelli, quella che
Francesco incorniciò di rosso e mi regalò per un Natale di secoli fa. La mia
mente sale su un treno, percorre 600 km, scende alla stazione gli va incontro,
lo abbraccia col cuore spezzato, poi riprende il treno e torna qui.
Stacco la mano dalla cornice ed ecco lo stipite, siamo
arrivati. Mi avvolge un odore di pane e formaggio, salame, frutta. È tutto sul
tavolo, posso intuirlo.
Lo immagino mentre apparecchia la tavola e organizza per me questa
strana cena oscura, non riesco a stupirmi, del resto è da lui.
Sistema la sedia e mi fa sedere.
“Sembri esperto” gli dico “mangi spesso al buio?”
“No e spero di non infilarti un’oliva nel naso” mi risponde.
Ridiamo.
E poi ci avviciniamo un po’ come se avessimo ancora bisogno
di una scusa.
Alzo la mano e trovo la mensola e sulla mensola una candela
che non potrò accendere ma l’annuso, perché è alla vaniglia e la vaniglia è
il mio profumo preferito.
Allunga una mano verso di me, trova la mia bocca, ne segue
il contorno e ci infila dentro un pezzetto di formaggio. Sa di miele.
Arrossisco ma nessuno lo saprà mai.
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