Visualizzazione post con etichetta scrittura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta scrittura. Mostra tutti i post

domenica 27 settembre 2015

La chiave



[era marzo, ero io]

Che me ne faccio io di questa chiave?
È evidente che non la userò mai. Tu sei una matrioska ed io non ho nessuna intenzione di arrivare fino a quella bambolina minuscola, l’ultima, per poi scoprire che non mi basterebbe e che vorrei aprire pure lei, anche se dentro non c’è niente e lo sanno tutti, pure i bambini lo sanno che quella non si apre ma si guarda soltanto. Probabilmente  poi vorrei spaccarla.
Quindi, torniamo indietro, niente matrioska, non ti aprirò.
Oppure mi sbaglio, non sei una matrioska, sei solo sabbie mobili che salterebbero fuori all’improvviso come un’attraente massa informe e che venendo verso di me, senza darmi il tempo di scegliere, mi avvolgerebbero entrando in ogni poro della mia pelle, fino a non avere neanche un centrimetro di corpo libero, né un pezzo di gola in grado di succhiare dentro l’aria per rimanere di qua.
Diverrei cianotica e strabuzzando gli occhi maledirei l’aver ceduto alla possibilità di te e il mio ultimo pensiero prima di andare,sarebbe il tuo involucro, saresti te prima di tutto questo.
Oppure no, mi sbaglio ancora.  Se usassi questa chiave per aprirti, verrei risucchiata in un vortice: sei un buco spaziotemporale, posso intuirlo guardando in quelle cavità che ti ostini a chiamare occhi. E se ci finissi dentro come Alice nel pozzo, dal dolore mangerei tutto il fungo cercando di anestetizzarmi e diverrei  minuscola e gigante al tempo stesso e sarei ovunque e in nessun luogo e poi imploderei.
Rimanendo solo briciole beccate da un tenero uccellino senza testa.
Quindi, tutto quello che dovrei fare è ingoiare la chiave.

Ma tutto quello che invece so è che non ho abbastanza acqua a disposizione per mandarla già senza soffocare. Quindi?

giovedì 23 aprile 2015

Duemilaquattrocentosecondi



https://www.pinterest.com/sstefany/
E’ ormai notte fonda e tutto è solo un ricordo, ricordo che  però non arriverà mai ad essere lontano, che anzi si fonderà con altri giorni ed altre ore pur rimanendo per sempre altro, per sua natura terribile.
Le ore hanno fatto da spartiacque e adesso non rimane che compilare qualche modulo prima di cercare conforto nel buio.
Perché non c’è altro che si possa fare. Non più.

Soltanto una manciata di ore prima Luca  era stordito dal profumo del Ponentino. Gliene avevano parlato gli occhi pieni di pagliuzze dorate di una ragazza romana, che quella sera riflettevano il fiume di una città che non era la sua, quella sera , forse l’unica, in cui lui non sapeva ancora che l’avrebbe amata fortemente.

Gli occhi di Mia raccontavano le contraddizioni e gli odori di una Roma che non l’avrebbe lasciata mai in pace, che sarebbe rimasta sempre tra la sua lingua e i suoi denti, nascosta dietro ad ogni parola.

Ma fino a quella mattina di maggio lui non era riuscito a capire davvero il senso di quella città.  
E invece aveva voglia di capirla, a fondo,  perché farlo avrebbe significato entrare in lei ed era l’unica cosa che desiderava davvero.

Così, l’invito al matrimonio di un amico d’infanzia di Mia, gli sembrò l’occasione perfetta per conoscere quelle due strane e nuove creature: una donna e la città che l’aveva vista crescere.

Porta anche Lolli

disse lei istintivamente mentre prendevano un caffè pianificando il viaggio e in quel momento a Luca non sembrò così folle l’idea di affrontare 600 km con una donna che conosceva da poco tempo, pur essendone già dipendente e con un bambino di 3 anni che invece dipendente lo era da lui, dal suo papà, nonostante le gambette corte ed incerte lo portassero spesso lontano, ad esplorare con sguardo curioso quel mondo troppo grande per i suoi occhi piccoli.

Giunti nel casale dove di lì a poco si sarebbe svolta la cerimonia i tre si prepararono: lui perse parecchio tempo nel provare ad infilare le scarpe eleganti al piccolo, tanto che  alla fine optò per le solite Kickers ormai sformate e lei per caricare di eyeliner nero i suoi occhi, consapevole però che non era c’era bisogno di quello perché lui ci si perdesse dentro.
E così ebbe inizio la serata tra cibo, vino, musica e chiacchere.

Luca ascoltava rapito i racconti di Mia che lo inondava di ricordi descrivendogli ogni angolo di quella città che osservavano dall’alto della terrazza: lavori, primi appuntamenti, strani incontri, la sua famiglia, il suo gatto, tutto gli appariva familiare.
Le parole di lei lo trasportavano placide sul fiume di quella vita in cui lui non era nemmeno pensiero.

Si distraeva solo per controllare Lolli che curioso si aggirava tra i tavoli, mangiava servendosi con le mani sporche di terra direttamente dal buffet e beveva grandi sorsate di succo di frutta nonostante la mamma e cioè la sua ex compagna, si fosse raccomandata di non fargliene bere troppo se non voleva accompagnarlo  in bagno ogni 5 minuti.

Ma Mia era così interessante e la sua scollatura così accogliente che Luca facendo con la testa ad ogni sua frase, si immaginava nell’atto di appoggiare l’orecchio al suo seno, per sentire il suo respiro innalzarsi,  fino ad arrivare con le labbra lì dove lei avrebbe avuto un sussulto.

Papà, posso andare giocare coi pagliacci?!”

Luca si voltò schiarendosi  la vista che il Pinot Grigio gli aveva reso annebbiata e in pochi secondi mise  a fuoco due clown: una ragazza alta e magra e un ragazzo di media altezza.
Il trucco era perfetto e così l’abbigliamento  e come da tradizione i due non parlavano ma comunicavano a gesti e grandi sorrisi.
Solo lei, in via del tutto eccezionale infranse la regola del clown ed usò la voce per chiedere ai genitori se i bambini potevano  seguirli per giocare insieme, una sola breve frase e poi riprese quel linguaggio sfarzosamente silenzioso fatto di passi lunghissimi e gesti ampi.

Così Lolli insieme ad altri 5, 6 bambini seguì i due e Luca riuscì a vedere il punto esatto in cui si sistemarono: i bimbi in cerchio e i due clown davanti a loro, pronti ad intrattenerli con palloncini  che di lì poco avrebbero preso la forma di cani e spade e giochi che li avrebbero fatti urlare di gioia e saltare dall’emozione.

Nell’andare via rumorosamente formando uno squinternato trenino che gli ricordò i Bimbi Sperduti di Peter Pan, Luca notò che il clown maschio si voltò e gli rivolse uno sguardo leggermente più lungo del normale, lui lo sostenne  assumendo un’espressione seria ed incuriosita e l’altro distese la bocca lasciando scoperti dei denti giallissimi.
Una specie di ghigno traverstito da sorriso che lo fece rabbrividire per un attimo.

Si avvicinò la sposa, una specie di fata degli elfi, scalza con morbidi boccoli castani lungo le spalle nude

“i ragazzi sono bravissimi, vedrai il tuo bambino si divertirà moltissimo. Lei ha già lavorato al matrimonio di mia cugina. Avete assaggiato la crema fritta? È favolosa. Divertitevi ragazzi, a dopo

disse tutto d’un fiato, da copione, come avrebbe detto a prescindere dall’interlocutore, come quando in un giorno sognato così a lungo ci si ritrovava a dover parlare con tutti e cento gli invitati, con o senza voglia.

Luca apprezzò il gesto ed anzi si sentì rassicurato dalle referenze dei due ragazzi, Lolli era piccolo e scapestrato e lui sperava di non dover litigare con nessun genitore, non dopo il fine settimana scorso quando dovette staccare il figlio dalla guancia di un compagno di giochi colpevole di avergli preso una macchinina.

Mia si era spostata a parlare con un tipo alto e ben piazzato e Luca paziente ne aspettò per un po’ il ritorno continuando a bere e  facendo fare ai suoi occhi la spola tra lei e il gruppetto di bambini urlanti e pensando a quale potesse essere il motivo che spingeva degli adulti a doversi vestire da pagliacci per far divertire dei piccoli indemoniati e  poi di nuovo tornava a Mia che con una mano teneva il bicchiere e con l’altra giocherellava con la collana e rideva e si spostava col corpo in avanti e poi rideva ancora mettendosi la mano davanti agli occhi e di nuovo parlava fitto fitto con il tipo alto.

Andiamo a fare un giro nel parco?” le chiese, avvicinandosi e lanciando uno sguardo che non lasciava speranze al  coraggioso intruso.
Lei sorrise come a dire “sapevo lo avresti fatto” presentò i due, si congedò e prendendolo sottobraccio si allontanò con lui verso il parco.

Passarono vicino ai bambini e Luca disse a Lolli di non muoversi e rimanere sempre con i pagliacci, lui sembrò averlo capito ma lo spettacolino in quel momento era troppo interessante per rispondergli.

Luca e Mia si baciarono, come da copione, nascosti nel folto di un parco che non sembrava possibile essere al centro di quella città nevrotica eppure seduttiva.
Si baciarono ancora, si misero le mani tra i capelli e sotto i vestiti, con una frenesia che nessuno di loro provava  da tempo e in quel modo che è quasi mangiarsi avvicinarono i loro corpi fino a sentirli avvampare.
Nessuna sorpresa, sapevano entrambi che sarebbe successo, aspettavano solo l’occasione giusta.
Poi passò quel tempo che non si sa mai quanto è, che avresti detto dieci minuti ed invece è mezzora oppure un’ora.

Un’ora e mezza!
Cristo, Lolli!

Luca e Mia tornarono indietro correndo e nello scoprire che c’erano ancora quasi tutti gli invitati e che la festa era ben lungi dal terminare, tirarono subito un sospiro di sollievo.
Ma il sollievo durò poco: si diressero velocemente verso i due clown circondati dal gruppetto di bambini che però non era più un gruppetto. Erano solo tre. E tra quei tre, Lolli non c’era.

Una morsa di terrore strinse lo stomaco di Luca ma con calma chiese alla ragazza
dov’è Lolli?

Lei, che non avesse avuto la faccia truccata di bianco, sarebbe impallidita, si guardò velocemente intorno e disse
Ehm, non lo so. Ha detto che doveva fare pipì e che poi sarebbe tornato da lei.

L’uomo, d’istinto cercò con lo sguardo il clown maschio che era di spalle intento a sistemare nelle borse colorate giochi ed attezzi , questo si voltò e di nuovo gli rivolse quel ghigno che ormai non aveva più dubbi, era malefico.

Ma l’avete mandato da solo? Ma siete pazzi? E’ piccolo.
Ma noi non ci siamo presi mai la responsabilità del bambino, i genitori stanno sempre qui intorno, passano a guardare, lei è sparito! Ho pensato che il piccolo l’avesse trovata.

Nel centro esatto del triangolo che vergogna, terrore e rabbia formavano, Luca si mise a cercare il suo bambino ovunque, col cuore in gola, le mani sudate e la mente invasa da immagini catastrofiche e cruente, i film horror che avevano accompagnato tante sue serate gli presentavano ora il conto tornando sotto forma di terribili fantasie.

Tornò al tavolo del buffet, guardò vicino al palco sul quale suonava ancora il gruppo, corse alla terrazza e premendo i pugni sopra il marmo ormai freddo del cornicione, istintivamente guardò giù.
Nulla tra le siepi, nulla sulla strada. 
Luca pianse per il sollievo di non aver trovato il corpo del suo bambino schiantato al suolo e per la disperazione di non sapere dove cercarlo. Gli tornò in mente il ghigno del clown e fu lì che pensò al peggio, che si preparò a veder morire una parte di sè. Si morse le labbra fino al sapore ferroso del sangue e le odiò e con loro odiò il mondo in cui entrando in quelle di Mia gli fecero perdere la cognizione del tempo e l’unica cosa che davvero contasse nella sua vita, l’unica cosa buona che aveva fatto: quel bambino buono e curioso dagli occhi blu.

Prese il cellulare e chiamò la polizia pronto a denunciare la scomparsa, erano passati quaranta minuti ed avevano guardato ovunque, chiesto a tutti, pensato ad ogni eventualità.

Il brusio che si levò all’improvviso spezzando in due quel silenzio di morte, lo fece voltare lentamente e tra le lacrime intravide due figure: un adulto, forse una donna, che teneva per mano un bambino.
Fu lì che la mente si fece inganno e si divise in due metà esatte: una parte era convinto di averlo ritrovato e l’altra invece voleva credere che si trattasse di un altro bambino e non certo di Lolli.
Perché Lolli non c’era più, era scomparso e con lui tutti i bambini della terra, insieme a i fiori e  ai fiumi.

La  donna si fece più alta, lo sovrastò con la sua figura e lui, non avendo il coraggio di guardarle il braccio e seguirne la linea fino ad arrivare a quel bambino che di certo non era il suo, la fissò in un punto imprecisato in mezzo al viso.
Lei aprì la bocca dicendogli
“L’ho trovato che dormiva in una delle scatole in cui teniamo i giochi.” 
Non si era mai mosso di lì, si era addormentato.

Nel frattempo arrivò la polizia
è lei che ha denunciato la scomparsa di un bambino? Ci sono dei moduli da compilare
E di seguito, come una buffa ed inaspettata risposta, arrivò la voce del piccolo
Papà, andiamo a casa?
Luca ritrovò il battito perso del cuore e la saliva nella bocca, lo stomaco si distese ed abbracciando Lolli lasciò andare incubi o paure.

O almeno, fu ciò che in quella profumata e surreale serata romana credette di fare, perché in realtà quell’assenza, quel buco nero lungo duemilaquattrocento secondi, sarebbe tornata a trovarlo puntuale, ogni notte della sua vita.

domenica 8 marzo 2015

Restiamo così.


Richiudo la porta, se mi annusassi le mani ora sentirei l’odore di ottone e di mille palmi che hanno toccato, prima di me, questa maniglia. Invece non ho il tempo di farlo, né di pensarci perché giunge dritto nella mia testa, un profumo di incenso e della cera ormai dura delle candele che una volta sono state profumate.
Faccio un passo e il gatto scappa appena in tempo, non lo calpesto e ne sono sollevata, mi sarebbe dispiaciuto sentire il verso sorpreso e dolente che avrebbe emesso.
Poggio la mia mano sull’interruttore e mi fermo a riflettere sui germi. Avevo una zia fissata con gli interruttori, li disinfettava almeno una volta al giorno, diceva che erano la cosa che più si sporcava in casa.
Sto per premerlo, sfidando i microbi e pensando che no, non ho mai disinfettato un interruttore in vita mia, quando sento una mano calda posarsi sulla mia.

Non lo fare” mi dice “Restiamo così

Quello che mi arriva è cuoio e tabacco, intreccio, senza capire ancora quello che sta succedendo, le dita tra le sue e rivolgo il viso dove dovrebbe essere lui. 
I centimentri che ci dividono non sono molti, posso sentirlo dal calore del suo alito che mi scalda il viso.

Ma che ci fai qui? Vuoi farmi morire?!
Stamattina quando sei uscita per andare  a lavoro non ho preso il treno ed ho deciso di rimanere qui ad aspettarti.
Al buio?” gli domando divertita.

Immagino, in quel nero che ci avvolge e divide, la sua smorfia, quella che dovrebbe essere un sorriso.

Da quando il sole è tramontato ho deciso di non accendere la luce. Ho rinunciato a leggere ma ho ascoltato la musica.”
Tu non sei normale.”
Mangiamo?” mi chiede lui.

Senza aspettare la mia risposta mi prende per mano e mi precede, dovrei essere io a guidarlo  ma per questa volta va bene così.
Percorro quei metri sfiorando la parete e cercando di mantenere l’equilibrio, almeno col corpo.
Seguo il bordo della stampa di Feltrinelli, quella che Francesco incorniciò di rosso e mi regalò per un Natale di secoli fa. La mia mente sale su un treno, percorre 600 km, scende alla stazione gli va incontro, lo abbraccia col cuore spezzato, poi riprende il treno e torna qui.
Stacco la mano dalla cornice ed ecco lo stipite, siamo arrivati. Mi avvolge un odore di pane e formaggio, salame, frutta. È tutto sul tavolo, posso intuirlo.
Lo immagino mentre apparecchia la tavola e organizza per me questa strana cena oscura, non riesco a stupirmi, del resto è da lui.
Sistema la sedia e mi fa sedere.

Sembri esperto” gli dico “mangi spesso al buio?
No e spero di non infilarti un’oliva nel naso” mi risponde.
Ridiamo.

E poi ci avviciniamo un po’ come se avessimo ancora bisogno di una scusa.
Alzo la mano e trovo la mensola e sulla mensola una candela che non potrò accendere ma l’annuso, perché è alla vaniglia e la vaniglia è il mio profumo preferito.
Allunga una mano verso di me, trova la mia bocca, ne segue il contorno e ci infila dentro un pezzetto di formaggio. Sa di miele.

Arrossisco ma nessuno lo saprà mai.

lunedì 24 novembre 2014

Scritturoterapia. Un lunedì piovoso.



Abbiamo ascoltato un brano e no, durante l'ascolto non potevamo scrivere. E io mi sono sentita le mani bruciare, il volto avvampare e il cuore sobbalzare in petto per il divieto imposto.
Non scrivere.
Un treno che sbuffa, che parte, che aspetta. Ferro. Kilometri. Viaggi senza senso. 

-No, non puoi, aspetta. Non puoi segnarti niente, anzi non prendere proprio la penna in mano. Aspetta-
Poi l'abbiamo ascoltato di nuovo e lì sì, lì abbiamo potuto scrivere.

E io ho scritto questo.



Nina trascorreva ore intere su treni che non portavano mai da nessuna parte.
Aveva poco con sé ma quel poco era tutto il suo necessario.
Arrivava alla stazione della sua città in orari imprecisati del giorno e della notte, prendeva un thè, leggeva qualche pagina del libro che aveva in borsa e controllava allo specchietto gli occhi sempre sfatti. 


Poi, come in un rituale senza senso alcuno, si metteva sotto al tabellone luminoso degli arrivi. Si spostava poi verso il binario che per primo avrebbe accolto quel fiume deforme di carne, pensieri ed aspettative.
Li guardava sistemare con cura giacche e bagagli, qualcuno si tastava vigorosamente per assicurarsi di non aver abbandonato nulla sul sedile ancora caldo dopo ore di stretto contatto.
Molti avevano gli occhi lucidi. Avete idea di quanta gente pianga lungo i binari?


Poi arrivava il suo turno, si spostava sotto il tabellone delle partenze, chiudeva gli occhi, li riapriva e coglieva la prima meta apparire luminosa ai suoi occhi.
Torino.

Via.

Il biglietto lo faceva sempre a bordo. Il procedimento con cui sceglieva il posto invece non era altrettanto casuale, c'era uno studio dietro, un'analisi accurata che non starò qui a raccontarvi.

Una volta giunta al suo posto si metteva comoda ed iniziava a scrivere.

Scriveva di quello che le sarebbe accaduto una volta giunta.
Senza nessun appuntamento, incontro, destinazione.
Una volta scrisse dell'incontro con una vecchia antiquaria con la quale avrebbe parlato degli oggetti e del senso di possesso che scatenano in noi.
Delle storie, spesso più noiose di quanto vorremmo immaginare, di chi li ha avuti.

Poi ci fu un uomo, al quale scrisse -avrebbe donato il suo cuore, se solo ricordasse dove lo aveva cacciato. 
E via dicendo, personaggi inesistenti che l'aspettavano da qualche parte una volta giunta alla stazione.

Poi, finito il viaggio, rimetteva le sue cose nella borsa e scendeva al binario: lo sguardo che lanciava intorno a sé era sempre di sottecchi. Era incuranza e mai speranza.
E poi thé, libro, tabellone.

giovedì 30 ottobre 2014

Alexanderplatz




Si incontrarono nella stazione della metro affollata. Non avevano un appuntamento, non dovevano vedersi, si incontrarono per caso, per un improbabile caso, viste le dimensioni della città.

Lui la osservò per qualche secondo, la guardò passare, gli sembrò che stesse parlottando da sola, ah no forse canticchia, ha le cuffie pensò, poi la vide sorridere e subito tornare seria a guardare le persone in quel modo strano: che un po’era attraversarle con lo sguardo e un po’ piazzare gli occhi fin dentro le viscere.
Si avvicinò e le mise una mano sul braccio, lei si voltò ferocemente e gli piantò quei suoi occhi vuoti proprio dentro, ma quello sguardo durò un solo secondo perché poi lei pianse.

Pianse continuando a guardarlo, pianse senza muovere  di un millimetro la faccia, senza fare nemmeno una smorfia: gli occhi si fecero larghi e bagnati e le lacrime scavalcarono il bordo sfumato di nero e rotolarono giù.
Lui non le chiese niente e non sembrò nemmeno preoccuparsi ma sorrise e le disse soltanto “hai tempo per un caffè?” poi si incamminò senza aspettare il suo sì ma pensando che se solo fosse stato capace di amare, avrebbe voluto amare lei.
Avrebbe voluto amare quello strano essere che sembra sempre capitato lì per caso e lì era ovunque, che piange e ride in quel modo snervante.

Quell’essere che vorrebbe scuotere forte per sciogliere i suoi pensieri annodati che si vedevano pure da fuori tanto erano aggrovigliati, solo che poi non avrebbe saputo che farsene e allora niente, meglio lasciarli lì dentro, annodati ed innocui.

Lei  lo seguì ma non si tolse mai le cuffie e lui pensò che avrebbe trovato maleducato e sconveniente il gesto se fosse stato fatto da una qualsiasi altra persona ma non da lei.
Perché lei aveva i suoi tempi, le sue emozioni con cui combattere. Lei poteva farlo.
Lei poteva camminargli accanto per ore senza sentirsi in dovere di dire qualcosa solo per spezzare quel silenzio che imbarazza.

E così camminarono. Si camminarono accanto, camminarono uno avanti ed una indietro, camminarono lentamente e poi accelerarono il passo senza dirselo apertamente ma riuscendo a mantenere sempre la stessa distanza.
Poi arrivarono sul ponte e sempre senza dirselo si fermarono.

Lei si tolse le cuffie e le infilò in borsa e lui potè sentire il suo odore e pur sapendo che non l’avrebbe mai toccata, provò per un attimo la curiosità di conoscere la trama della sua pelle, di sentire il caldo sotto i suoi vestiti, il caldo tra le sue gambe.
Che facciamo?” chiese lei chiudendosi una sigaretta. “Guardiamo il fiume” rispose lui distogliendosi controvoglia dai suoi pensieri.





martedì 7 ottobre 2014

Eloise





La signora che paziente attende il suo turno in pasticceria si chiama Eloise.  O almeno è il modo in cui si fa chiamare negli ultimi 20 anni.
I capelli che iniziano ad ingrigirsi lei li tiene raccolti in un anonima crocchia pur di non rinunciare al vezzo di tenerli lunghi, infatti se li scioglie le arrivano quasi al sedere.

L'unico segno particolare che aveva e cioè un neo sotto l'occhio, se lo fece rimuovere anni fa.
Insinuò nel dermatologo il dubbio che potesse essere brutto, gli raccontò di come sua madre fosse morta proprio di melanoma alla pelle ed in questo modo riuscì ad ottenere quell'intervento.

Non ha più amici se si esclude il fioraio, con cui beve qualche innocente the il lunedì pomeriggio quando torna dall'incontro di lettura con quelle vecchie noiose, o meglio, lei le vive come tali pur essendo in realtà sue coetanee, quelle vecchie che leggono sempre brani di un amore banale e lontano o se proprio vogliono trasgredire qualche passo di Grishman.

Per tanti anni non ha avuto più contatti con la sua unica famiglia, qualche anno fa la sua unica nipote riuscì sorprendentemente a trovarla, lei negò per mesi di essere davvero la nonna, le diceva con voce dolce e rassicurante: "signorina, si sbaglia. I miei nipotini vivono in Francia" ma quando poi vide nello sguardo la determinazione e la rabbia che le ricordarono la lei di tanti anni fa, si arrese.

Per fortuna quella ragazza non aveva preso niente da quello stupido del figlio.

La nipote non le chiese mai perché avesse cambiato città ed identità e lei, del resto, non aveva nessuna intenzione di dirglielo.
Ma le faceva piacere ricevere quelle, fortunatamente rare, visite.


È stanca di scappare, di cambiare identità e colore dei capelli e la paura inizia pericolosamente ad affievolirsi, anche se è sempre con lei. E pensandoci bene, non saprebbe dire se la paura più grande sia quella di essere riconosciuta come l'autrice dell'omicidio di tre uomini o quella di venire punita per quello che ha fatto, magari da Dio, sulla cui esistenza ha ancora qualche dubbio.

Odia la vecchiaia, la fa sentire debole. Vorrebbe essere ancora quella giovane donna di un tempo: bella, sicura di sé, che non si fermava davanti a niente a nessuno e non questa versione di sé stessa rattrappita, timorosa, inaridita e grigia.


È quasi il suo turno, sorride paziente alla lentissima commessa e nel farlo tira fuori dalla tasca una collana con un ciondolo a forma di croce.
È il feticcio che l'accompagna da quasi 30 anni ormai, lo stesso che la sua mano sporca di sangue e terra strappò dal collo di Leonard tanti anni fa.



Tre ore

Di quel giorno non ricorda quasi più niente, ma se una cosa le è rimasta impressa nella memoria è proprio l'ipnotico movimento oscillante che la collana faceva davanti al suo naso: a volte le sfiorava la fronte, a volte le accarezzava le guance. 
Se c'è una cosa che non ha dimenticato in tutti questi anni e che mai dimenticherà è proprio quel ciondolo a forma di croce che si comportò in modo così stridente con il resto della situazione. 

In un lago di sangue, lacrime, dolore, urina, quel ciondolo sovvertì tutte le regole e lo fece accarezzandola delicatamente come a dirle, ci sono io, non ti preoccupare, ora passerà tutto.
Quel ciondolo, quel movimento, quelle carezze le diedero la possibilità di fuggire da quella agghiacciante realtà e di rintanarsi in un mondo piccolo piccolo e tutto suo, in cui riceveva delle carezze sul viso, un solletico sul naso, dei colpetti sulla fronte.
Quel giorno furono il ciondolo e la collana a salvarle la vita.

Leonard naturalmente non si accorse di nulla e nemmeno gli altri due che a turno le furono sopra, o dietro, se qualcuno si fosse accorto di quello che stava succedendo tra lei e la collana, di sicuro l'avrebbe fatta sparire. Perché lei non doveva provare nessun tipo di sollievo.

Per fortuna a toglierla da quel collo fu lei e solo lei e non la sfilò mai più dalla tasca nella quale la nascose, quasi come se avesse sentito da subito che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lei, per ricordarle il suo nome, p
er ricordarle chi era e cosa era invece diventata dopo quel giorno.

Erano ormai tre ore che era rinchiusa in quello scantinato e che quei tre corpi si sfogavano con il suo corpo, sul suo corpo, nel suo corpo. Chissà cosa li aveva portati a scegliere proprio lei, chissà se era la prima, sicuramente non sarà stata l'ultima. 

Quando Leonard le propose di andare a finire la serata bevendo qualcosa a casa di un suo amico, non poteva immaginare che sarebbe finita così, che sarebbe finita a sperare di morire pur cercando di rimanere in vita. 
Che poi se fosse morta, pensava, gli avrebbe tolto il gusto di continuare ma nemmeno di questo era poi tanto certa.



L'esercizio era inventare un personaggio. Il corso sempre quello delle Balene

martedì 23 settembre 2014

Incipit

Come forse saprete, o forse no, sto seguendo un corso di scrittura creativa in italiano qui a Berlino, per l'esattezza quello di Le Balene possono volare.
Non mi sono vergognata mai di raccontare cose intime e personali ed invece -sorpresa- mi riscopro timorosa nel lasciarvi affacciare all'interno della mia fantasia.
Di immaginare, 
di lasciarmi ispirare.
Guidare.
Insegnare.

Ma mi piace, mi piacciono i miei limiti e le mie insicurezze. Ed ogni tanto, mi piace quello che scrivo.

No, il sole no. Vi prego.

Quando batte il sole lo fa così forte e in maniera così asfissiante che le sembra ogni volta di morire.
Il secchio in cui le lasciano quel poco di acqua sembra ogni giorno più lontano, non sarebbe stupita nello scoprire che non è un caso e che la cosa sia voluta.
Ogni volta qualche centimentro più lontano, così che diventi più faticoso raggiungere quell’acqua putrida eppure indispensabile. Solo un centimentro che però si fa sentire tutto.

Non avrebbe mai pensato che un centimetro potesse significare tanto, se invece la catena che le stringe la caviglia si potesse allentare anche di un solo mezzo centimetro, la pelle non si scarnificherebbe come invece sta facendo. E poi quelle mosche che girano intorno alla sua ferita infetta e che la preoccupano un po’.

Le sbarre della gabbia sono ormai infuocate e la prima volta che è successo, ha urlato e pianto così forte che uno si loro si è mosso a pietà o forse non ne poteva semplicemente più ed ha coperto la gabbia con un grosso telo nero, come si fa coi pappagalli per farli smettere di cantare o parlare.
A lei è piaciuto e quando l’aria iniziava a scarseggiare, poteva avvicinare il naso, scostare un po’ il telo e respirare forte.
Fu una bella giornata quella, poi svenne. E quando si riprese il telo era sparito ed era buio.


Le fanno sempre degli indovinelli prima di darle da mangiare e quando non indovina non mangia: questa è la regola. 


lunedì 1 settembre 2014

Basi e passaggi. Ieri e oggi. Andate e ritorni.



Riflettevo con un'amica* sulla spiaggia al tramonto 

o almeno mi sembra che si trattasse di una spiaggia al tramonto, in ogni caso mi piace pensare che questa riflessione che vi sto per raccontare io l'abbia fatta proprio su una spiaggia al tramonto

che forse la condizione dell'emigrante mi è proprio congeniale.

Non mi è capitata per caso, non si è trattato solo di necessità lavorativa, del cercare una vita migliore, della crisi in Italia, della voglia di provare qualcosa di diverso.

Forse in fondo a tutti questi motivi c'è, dolcemente adagiata, quell'affascinante malinconia che la condizione porta con sé, quell'intrinseca nostalgia delle persone care che mi accompagna ogni giorno.

E che mi piace, non posso negarlo. Mi piace sentire delle mancanze, mi piace immaginare, mi piace ricordare. E mi piace fare tutto ciò continuando a vivere.


Ad esempio mi è sempre piaciuto, al ritorno dalle vacanze, guardare per un'ultima volta il panorama (quasi sempre un mare da cartolina) la sera o la mattina, dipende dall'ora in cui ci si rimetteva in macchina per tornare a casa, in ogni caso riuscivo a ritagliarmi qualche minuto per tornare, spesso da sola, ad osservare il luogo che stavo per salutare e per soffermarmi su quel dolore fisico allo stomaco, sulle narici piene dei giorni appena trascorsi, su quel già mi manca, su quel ci vediamo l'anno prossimo.


Ed è così che qualche giorno fa ho guardato per la prima volta Roma. L'ho guardata dal finestrino della macchina che da via Angelo Emo ci ha portati di corsa a Fiumicino, e poi l'ho guardata anche dal finestrino dell'aereo, soffermandomi sul mare che sembrava davvero limpido.

Roma che è sempre stata base solida e che invece, dopo tanti anni si è trasformata improvvisamente in luogo di passaggio, in un posto in cui tornare a leccarsi le ferite, in un posto dove inaspettatamente rilassarsi, in un luogo di amori primitivi e proprio per questo adatto per potersi prendere una pausa dall'amore di oggi. 

Dall'amore totalizzante che pretende un cagnolino complicato come il mio, ad esempio, da quello più delicato ma comunque importante che provo per Gimli.
Dall'amore solido per il mio compagno di vita, dall'amore travolgente per questa città bipolare e sempre nuova in cui viviamo da più di un anno.

Pausa. 

E si torna indietro di vent'anni, di colpo. Vent'anni fa.

Rendersi conto di avere così tanto da ricordare e da raccontare su qualcosa che ha vent'anni, qualcosa che è accaduta vent'anni fa, ti mette di fronte all'età che passa e lo fa in modo molto più deciso di quanto abbia mai fatto un qualsiasi specchio. 

I miei ricordi hanno vent'anni e sono una bella ragazza alle prese con l'università, che ha già la patente da un paio d'anni e che guida il motorino ormai da sei.

I miei ricordi ormai hanno una vita sessuale e assumono un anticoncezionale.
I miei ricordi sono già partiti per un interrail e sperano fortemente di poter partire per l'Erasmus. 
Rendiamoci conto, i miei ricordi sono adulti.

Vent'anni fa: la comitiva da Lolita nei pomeriggi d'estate che non passavano mai, a fare la conta di chi era già partito e chi invece era già tornato e quando parti tu e quando parto io. 
A Fregene con il pullman dell'Acotral bollente e schioppettante sull'Aurelia intasata.

Una cameretta troppo piccola da condividere con una sorella troppo piccola.

E poi, il primo vero amore, in un giorno di (boh diciamo novembre) che si presenta in comitiva con un motorino che faceva un casino incredibile e non vi fate nemmeno tanto caso, che poi tu stai già con un altro che però presto lascerai in un pomeriggio al Gianicolo rifuggendo dai suoi baci adducendo come scusa un originale mi strucchi.
(Forse sarebbe stato più corretto dirgli mi stucchi, beata gioventù.)

Poi il famoso appuntamento in cui si presentò con 25 ore di ritardo che avrebbero dovuto dirmi tutti su quello che sarebbero stati i successivi sei anni. E invece per fortuna non mi disse niente e furono assolutamente faticosi, deliranti, dolorosi, avventurosi ma proprio per questo meravigliosi.

E se vent'anni fa (circa) ad esempio mentre tornavate dal Festivalbar di Napoli e giungeva la notizia della morte di Lady Diana o mentre attraversavate la Sardegna in Vespa, o mentre aspettavi che finisse di modificare chissà quale motorino o peggio ancora mentre cercavate di lasciarvi al telefono, di persona, per lettera, tra le lacrime, le liti, il dolore, entrambi incapaci di staccarsi dall'altro nonostante poi fosse davvero l'unica cosa sensata da fare, se in uno di quei mille momenti qualcuno ti avesse detto che vent'anni dopo lui ti avrebbe aperto le porte della sua nuova casa e della sua nuova vita abitata da una compagna fantastica (*l'amica della spiaggia al tramonto) e un figlio speciale, sveglio, simpatico e felice, tu avresti risposto ma è impossibile!

E invece non è stato affatto impossibile, è stato bellissimo.

Concederci dei giorni insieme, ridere di ciò che è stato, ritrovare dei modi di dire che ancora abbiamo, tornare negli stessi luoghi di quei tempi, ed osservare le nostre vite di oggi: complicate, piene ma felici. E gioire di questo. E sentire fortemente che certi legami, non si dissolveranno davvero mai.


Anche questo è stata la mia vacanza.

Oltre ai miei piatti preferiti cucinati da mamma e papà, al perdermi con la macchina per una Roma vuota, all'amare mia sorella anche nei momenti di odio, all'aperitivo al Pigneto, al non trovare più il Gianicolo (?!) ad un mare toscano bellissimo, al sentire che mi stavo ustionando e non prendere provvedimenti, alle ore ed ore in acqua, ai saluti ai nonni, agli amici di sempre, a quelli che avrebbero voluto ma non hanno potuto, a quelli che passano in sordina e va bene così.

Qui a Berlino il segno dell'abbronzatura stride col cielo che già ne promette delle belle e con le giornate che iniziano ad accorciarsi, io non vedo l'ora di rituffarmi nella routine di un autunno e di un inverno che spero sarà più clemente di quello trascorso. E non parlo di meteo.

Domani torno anche a scuola di tedesco.
Oggi devo fare un ripasso:


Heimweh  (da Heim casa e Weh dolore)  richiama alla mente il dolore che si prova quando si è lontani e si pensa alla propria casa, ai propri affetti.

Fernweh (Fern lontano e Weh dolore) è la nostalgia per dei posti lontani che non si conosce ancora.


Ed io soffro di entrambi oltre alla sempreverde "nostalgia per qualcosa che non vivrai mai" che Baricco non ha avuto di meglio da fare che infilarmi in testa tanti anni fa e per la quale non credo esista ancora una parola in tedesco. 

lunedì 21 luglio 2014

Amico immaginario (non sono immaginario)

-carta da parati vecchia e rovinata- Google- 



C'è questo fatto che i personaggi per me possono essere intercambiabili, possono anche non esserci forse. Quello che conta davvero è ciò che provano.

O semplicemente il personaggio sono quasi sempre io, sono in ogni altra persona che descrivo, così come chiunque può essere me e non me la sento di dire "questo non potrei mai esserlo", questo vorrei non esserlo mai, al limite, quello sì, quello posso dirlo. O devo. O dovrei. Vabbè.

I personaggi. 


Descrivete un personaggio che vorreste essere o che non vorreste essere mai. Ma non qualcosa che siete realmente.

E chi sbuca? 

Lui.
Sono passati così tanti anni dalla prima volta che l'ho incontrato, durante un volo di Pindaro, uno dei tanti.
Poi l'ho ricercato, ho cercato di capirlo, di chiarirmi le idee su di lui, ho cercato di dargli un nome ed una faccia. Ho cercato di fermarlo da qualche parte ma niente. Tutto inutile.


È coerente col suo non voler essere una presenza costante al punto da farmi dimenticare di lui.

Ma oggi è tornato in un baleno e non ho sentito scuse, l'ho fermato, l'ho guardato negli occhi sempre bassi e fastidiosamente sfuggenti e l'ho costretto a rimanere con me per qualche secondo. 

Uomo, 30 anni, magro, solitario, scuro, un po' sociopatico, nessun rapporto con la famiglia, qualche amico con cui però non esce mai.
Forse si droga, ma niente di serio.

Un cane, che è l'unica occasione per uscire di casa, tre brevissime volte al giorno.
Università abbandonata, troppo incostante per avere una qualsiasi relazione umana.
Ormai quasi completamente disinteressato al sesso.

Ecco le visioni. Un ronzio che anticipa sempre un flashback.
Pochi minuti di assenza in cui vede -letteralmente- con gli occhi di un'altra persona, di una ragazza,  per l'esattezza.
"Assorbenti, make-up, discoteca affollata, cocktails con amiche, sesso con un uomo durante in quale vede soltanto la spalliera del letto."

Niente che potrebbe veramente essere nel suo campo visivo o nella sua mente.

Eppure ci sono: ronzio e flashback.
Diventa tutto quasi piacevole, una curiosa abitudine.

[Senza sapere che nell'appartamento accanto, a "lei" succede la stessa cosa e i suoi, di lei, flashback sono

"carta da parati vecchia e rovinata, tv accesa su televendite notturne, un cane, un telefono che nessuno ha voglia di usare, cartine e tabacco."]

Nell'ultima immagine, "lui" è steso a terra, sotto casa.
Non sappiamo se è morto, certo è che è stato investito da un ultimo, beffardo, flashback.
[Come?]


Lui vede un altro uomo con un cane in mezzo alla strada, "forse gli chiedo da accendere", pensa...immenso sforzo di socialità...

Lei è alla guida della sua macchina, non esattamente lucida e ne vede un'altra venirle incontro, si spaventa e perde il controllo.

Bum.

[sta roba gira, gira, gira come una macchina che gira, gira, gira sul GRA di Roma, un GRA insolitamente vuoto aggiungo, e che non riesce ad imboccare un'uscita.
E così, nello stesso sterile modo, gira, gira, gira da anni, questa storia nella mia capoccia.
Io ero lei, ma oggi ho scritto di lui.
Non sono mai riuscita a metterlo per iscritto, questo non è tutto, non è molto ma è un sunto, frutto di 20 minuti di esercizio al corso di scrittura creativa delle Balene.
C'è pure una musica da metterci sotto, che è  questa. Trovo che sia antica il giusto.] 



giovedì 17 luglio 2014

Il ponte bipolare nella Berlino dei pensieri.



Google immagini "Ponte bipolare"

Il ponte dei pensieri.


Che immagine vi viene in mente con un titolo così?
A me è venuto in mente, da brava razionale, un ponte su cui si pensa mentre per la mente che ha partorito questo titolo, era più un ponte fatto di pensieri.


Per la prima volta nella mia vita ho partecipato ad un laboratorio di scrittura creativa e il primo esercizio è stato "pensate ad un titolo, il primo titolo che vi viene in mente. Fatto? Bene. Ora date il titolo alla persona che vi siede accanto. Lavorerete sul titolo pensato dall'altra. Avete circa 10 minuti."

E così è stato. 

Ed io ho scritto questo:


La sera rincaso sempre alla stessa ora.

Ed è sempre alla stessa ora che mi fermo su questo ponte che attraversa il canale.
L'aria è salmastra ma a me sembra fresca, sarà che arrivo qui sempre dopo 8 ore di ufficio e quasi una di treno.

Mi fermo sul ponte: è il mio vezzo, la mia piccola libertà.
So bene che dovrei sbrigarmi a rincasare, che non ho ancora preparato la cena, i bambini reclamano e il cane deve fare pipì ma mi concedo sempre il lusso di fermarmi su questo ponte.
Dove l'aria è salmastra e fredda e verrebbe facile pensare.


Io non lo so se penso, me ne sto lì impalata, a guardare il fiume, ad annusare l'aria.
Anzi, il mio vezzo è proprio provare a non pensare, il mio esercizio è sentire, soltanto sentire. Sentire, ad esempio, la terra che sotto ai miei piedi, vibra al passaggio del treno.

Vado.


Se mi piace? Certo che no.
Difficilmente mi piace ciò che scrivo e soprattutto non ho mai pensato né voluto scrivere niente su un ponte dei pensieri, il mio titolo era Berlino Bipolare. Bello, no?

E poi non so scrivere a comando e non so scrivere racconti di fantasia. So scrivere solo di quanto stia bene, stia male, di quanto intensamente e come stia vivendo qualcosa.

Eppure, qualcosa è uscito.

Eppure, pensando a questo ponte dei pensieri mi è venuto subito in mente un ponte di una stazione della S-Bahn qui a Berlino, una stazione ad Ovest: West qualcosa... Westend o Westkreuz non ricordo bene, ponte su cui non mi sono mai fermata a pensare ma che è stato uno dei primi posti che ho visto qui a Berlino lo scorso anno, non appena trasferiti.

Non è il ponte di Warschauer strasse, nè il famoso 
Oberbaumbrücke, è un posto come un altro, un posto che nessuno va a visitare, un po' anonimo forse.
Ma è arrivato in soccorso e così in dieci minuti ecco venuto fuori un raccontino di senso compiuto.
Io mi ci sono fermata, su quel ponte, ed ho provato a non pensare. Proprio come lei.

Sono soddisfazioni.

Chissà cosa avrei scritto, seguendo la scia della Berlino Bipolare che mi era venuto in mente.
Perché Berlino lo è un po' bipolare: la modiva e la quiete, l'est e l'ovest, il passato e il presente.
E pure io sono un po' bipolare, sarà per questo che ci sto bene a Berlino.

Per esempio, ora ho voglia di cambiare discorso. E mi piacerebbe mi seguiste in questa svolta improvvisa, è facile.

Per esempio l'epilessia. 

L'epilessia di qualcuno che amiamo, potrebbe essere definita come cura contro l'ansia?!
Almeno nel mio caso sta funzionando più o meno così, il mio dover avere tutto sotto controllo se ne va in fumo in una manciata di elettrici secondi.

Un momento prima il tuo cane è lì con te sul letto, sul divano o per terra, forse sta riposando. 

Ed un attimo dopo parte in chissà quale mondo lontano e tu non puoi fare altro che intervenire alla svelta col farmaco ed aspettare. E poi sperare che torni da te il prima possibile. Poi qualche secondo ancora in cui cerca di capire chi è e cosa gli è successo e si aspetta ancora quella manciata di secondi, sperando fortemente che la smetta presto di guardarti come se non ti riconoscesse e poi via....feste a non finire, come se non ti vedesse da anni.
Chissà, forse davvero non ti vede davvero da anni, dopo una crisi.


Niente più piani, niente certezze, può avvenire in un qualsiasi momento.
Niente "pensieri magici": è successo perché ieri gli ho dato due bastoncini in più o perché i vicini hanno esultato per i Mondiali. 

No, macché, non c'è logica alla quale attaccarsi: arriva e basta. 

E nel frattempo ti insegna ad aspettarti tutto e ad essere pronta, a tutto.
E nel frattempo, tutto prosegue e siamo arrivati ad un'altra estate in cui tutto è diverso dalla precedente.
Ponti compresi.